Recensione: Def Leppard

Di Marco Giono - 21 Novembre 2015 - 2:47
Def Leppard
Band: Def Leppard
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2015
Nazione:
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75

 

Do You really, really wanna do this now?

 

Certamente che lo vogliamo! I fans e in fondo la scena musicale ne avevano bisogno perché la musica dei Leppard è qualcosa di raffinato che travalica i generi miscelando melodia ed energia in un equilibrio decisamente raro. Sette anni trascorsi dall’ultimo album di inediti sono davvero tanti, i fans per lo più attendono in bilico tra speranza e rassegnazione fatalista. Si susseguono concerti, side projects, eventi ameni vari, ma il quantistico incedere della realtà si manifesta in una singolarità nefasta quale la malattia di Campbell. Il destino ancora una volta non è benevolo nei confronti del gruppo inglese. Tuttavia resistono alle intemperie. 
Uno dei segni anticipatori del ritorno dei Def Leppard si manifesta sotto forma di pubblicazione del disco dei Whitesnake intitolato “The Purple Album” che è omaggio ai Deep Purple di quando Coverdale ne era la voce. Diviene quindi premessa certamente più di debole dell’accoppiata “1987” e “Hysteria”  che aveva monopolizzato la scena proprio nello stesso anno. Tuttavia la magia di quel periodo si è assopita in un’incertezza nobile perché resa tale dal confronto con le alte vette raggiunte dagli ottanta. I Def Leppard in realtà danno alle stampe album buoni quaili “X” e “Songs from the Sparkle Lounge”. Se il livello dei singoli brani è alterno, non mancavano mai di regalarci brani che denotano la classe di sempre. Solo che i tempi delle grandi produzioni di Robert “Mutt” Lange sono lontani e i suoni da complessi diventano più semplici anche se per fattura rimangono al di sopra (meno di un tempo) rispetto al livello medio generale. 

 

Welcome to the carnival

 

I Def Leppard danno quindi alle stampe il loro album eponimo, quasi fosse dichiarazione di intenti che diviene tentativo di riaffermare sè stessi a dispetto del tempo impietoso. Stavolta la cosa interessante è proprio il tentativo di confrontarsi con la propria identità che diviene inevitabilmente scontro tra ambizione e possibilità. L’ambizione è quella di emulare una band come i Queen capace di attraversare i generi pur mantenendo un proprio stile. La possibilità invece è data da ciò che rimane dell’anima del gruppo, quel qualcosa che si manifesti poi in brani in grado di elevarsi al di sopra della moltitudine.  Andiamo a vederci dentro. 

 

The heat goes up as the lights go down

 

L’album prende avvio con “Let’s go” in uno spiazzante déjà-vu che ci riporta direttamente a “Pour Some Sugar on Me”. Siamo all’omaggio? Forse alla rivisitazione, ma rispetto all’originale la melodia del coro diventa teatrale in maniera beffarda e malgrado tutto rimane un buon brano che dal vivo potrebbe essere un biglietto da visita esplosivo. La successiva “Dangerous Dangerous” invece è fuoco d’artificio. Qui i Def Leppard detonano riff in vinile, così gli anni 80 si materializzano anche attraverso un coro disegnato da una melodia trascinante. La riascoltiamo qualche volta non si sa mai, ma funziona tutto e su tutto il dialogo tra la ritmica della accopiata Campbell/Collen a cui risponde la voce ancora in forma di Elliot. Tra i più bei brani dell’album. 
La terza traccia “Man Enough” è scolpita in un mood alla Queen che ricorda “Another One Bites the Dust”. Qui è il basso appesantito di Savage che conduce le danze e non mancano le finezze chitarristiche in riff abrasivi e scherzosi. Non è un brutto brano sia chiaro (anche se rimarrà un episodio controverso per i fans del gruppo), ma distante dal mood del disco. 
Poi decidono che a cantare siano i componenti dei Def Leppard stessi nella successiva “We Belong” che corre incantevole in un cielo elettrico.  Prendiamo fiato e chiudendo gli occhi lasciamo che “Invicible” ci conquisti con il suo riffing elegante, ma potente che per certi versi rimanda allo stile di un rocker melodico come Charlie Sexton. La voce qui si trova a suo agio e il mondo dei Def Leppard riemerge nella sua antica classe cristallizzandosi in assoli graffianti e splendenti. La successiva “Sea of Love” è scissa tra riff giocosi e cori stratificati in vocalizzi eleganti. Diversamente “Energized” lascia da subito spazio alla voce che sporcata da effetti di modernità riesci a farsi piacere anche grazie a ricami eleganti di chitarra. Se ora il cielo è sereno all’improvviso l’atmosfera si riscalda e “All time High” squarcia gli equilibri in ritmiche serrate, assoli splendenti a cui risponde Elliot con energia e tatto. 
In “Battle of my Own” i Def Leppard diventano acustici facendo il verso ai Led Zeppelin, poi “Forever Young” resuscita gli anni 80 con riff sporchi contemporanei e la chitarra veloce domina il brano pur lasciando spazio alle solite armonizzazioni vocali nello stile della band inglese. La decima traccia intitolata “Broken’N’ BrokenHearted” è spinta da un riffing melodico che si concretizza in un coro a presa rapida, commerciale forse, ma fatta bene. 
Pausa acustica con “Last Dance”, dal minutaggio ridotto, rimanda a Rod Stewart dei primi ottanta, in parte anche a Bryan Adams, in ogni caso scorre piacevole e funziona perché impreziosita dalla buona prestazione della voce di Elliot.
Ci avviamo verso la fine del disco e di certo non ci aspettiamo “Wings of an Angel” che sfoggia parti di chitarra moderne ed un cantato dai colori ben più scuri del solito, il tutto avrebbe potuto ben figurare sulla seconda parte di “X”.  Gran brano, probabilmente uno dei migliori dell’album.
Chiudono con uno dei brani più lunghi dell’album intitolato “Blind Faith” che si muove in tempi lenti tra soli di chitarra, parti orchestrali e acustiche a fare da tappetto alla voce stavolta quasi rauca di Elliot. I toni diventano più sostenuti in un crescendo misuratamente epico. 

Let’s Go (oh oh oh)    

 

Non siete d’accordo? Nemmeno io all’inizio. Ascoltavo i Def Leppard e parecchie cose non mi tornavano. Non era come avrei voluto che fosse. I suoni sono trattenuti e avrei preferito altro, magari quelli sentiti in “Pyromania”. Poi le canzoni nello loro varietà ripercorrono il passato: prendi “Sea of Love” che rimanda a “Sweet Home Alabama” dei Lynyrd Skynyrd e forse ci trovi i Beatles in “Blind Faith”, oltre a quelle già citate. A volte li senti troppo leggeri, altre si muovono in un rock all’apparenza più semplice. Ti ricorda “X”, ma è più vario, forse più ambizioso. Per certi versi le chitarre elettriche tornano ad essere centrali come in “Songs from Sparkle Lounge”, ma ora i suoni sono più moderni, meno debitori del passato. Dopo ripetuti ascolti, pausa e ancora ascolti mi convince e può piacere a patto di cambiare la prospettiva: non più le altezze impossibili di “Hysteria”, ma un presente all’apparenza più leggero che in realtà ha l’ambizione di riaffermarsi nel proprio stile riconoscibile riuscendo a essere vario traendo ispirazione dal passato, ma rimanendo alla giusta distanza per non rimanerne impigliato. I brani anche meno convincenti riescono a mostrarsi comunque in una luce elegante tutta loro, quella dei Def Leppard di sempre, di una band  capace di essere immediata, ma mai scontata. Secondo me un album più che buono e che merita una (altra) possibilità.

 

MARCO GIONO

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