Recensione: Descend Into Depravity

Di Luca Trifilio - 30 Settembre 2009 - 0:00
Descend Into Depravity
Band: Dying Fetus
Etichetta:
Genere:
Anno: 2009
Nazione:
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73

I Dying Fetus ritornano sul mercato a due anni di distanza dal precedente War Of Attrition, e già questa è una notizia visto che negli ultimi tempi ci avevano abituati ad attese più lunghe. Quella che invece non è una novità è l’arrivo in studio di una band ancora una volta modificata rispetto all’ultima registrazione. Stavolta a lasciare la band sono stati il chitarrista Mike Kimball, che aveva suonato in Stop At Nothing ed in War Of Attrition, ed il batterista Duane Timlin, sostituito dal nuovo ingresso Trey Williams. Nessun sostituto invece è stato individuato per Kimball, ragion per cui i Dying Fetus si presentano all’appuntamento del loro sesto studio album (il settimo se si considera anche Infatuation With Malevolence, uscito nel 1995 e che contiene i primi due demo della band) come terzetto, con John Gallagher impegnato come da tradizione a comporre, suonare la chitarra ed a vomitare nel microfono col suo growl gutturale, ed il bassista Sean Beasley nel ruolo di rabbiosa seconda voce, un growl meno profondo e più urlato.

Il nuovo Descend Into Depravity, anticipato dallo streaming di diversi brani, si presenta con una copertina abbastanza atipica, una sorta di incrocio tra un fotogramma di un film action e la copertina di un videogioco, in una rappresentazione del mondo che ci circonda, della corruzione, della disonestà con la quale tocca quotidianamente lottare, e che potrebbe spingere chiunque ad un momento di esasperata follia. Per quanto riguarda le tematiche trattate nei testi, affidati stavolta a Sean Beasley, si rimane ancorati ad argomenti di stampo politico e sociale, come da tradizione nella proposta del gruppo americano. Altre caratteristiche rimaste immutate sono la composizione del titolo, ancora una volta formato da tre parole, e la tracklist, sempre composta da otto brani fin dal primo full-length effettivo, Purification Through Violence.

La prima traccia è la tipica opener killer: partenza sparata, cambi di ritmo trascinanti, groove a palate, un massiccio breakdown per cominciare a far capire che da queste parti le tinte -core hanno sempre uno spazio importante ed un assolo tecnicamente pregevole. Ed è proprio durante l’assolo che emerge una caratteristica importante del disco, frutto di una precisa scelta: vi è una sola traccia di chitarra, quindi durante gli assoli resta, come base musicale, solo la sezione ritmica di basso e batteria, senza altre tracce di chitarra. Tale decisione, indubbiamente coraggiosa, è indice dell’onestà di una band consapevole del fatto che non sarebbe possibile riprodurre in sede live dei brani incisi con più chitarre, poiché la presenza di un solo chitarrista in formazione causerebbe un impoverimento dell’impatto notevole. Invece, su disco è stato registrato esattamente quello che la band potrà riproporre dal vivo, e questa scelta audace e controcorrente è senza dubbio da premiare. La massiccia Shepherd’s Commandment, per la quale è stato girato un video, mette in risalto la direzione musicale che i Dying Fetus hanno ormai definitivamente abbracciato: mid-tempo rocciosi, variazioni ritmiche affidate alle parti di batteria mai statiche o ripetitive, tantissimi riff e lick ad impreziosire ogni brano. Già, perchè Gallagher sforna anche questa volta tonnellate di riff, tanto che durante l’ascolto di una Conceived Into Enslavement piuttosto che di una Atrocious By Nature risulta naturale pensare che un gruppo dalle abilità compositive medie riuscirebbe a tirar fuori quattro o cinque brani utilizzando la quantità di idee che i Dying Fetus riversano in una sola traccia.

Eppure, non è tutto oro quello che luccica, perchè se le qualità della band, e di Gallagher in particolare, sono note agli appassionati, c’è anche da dire che la strada intrapresa fatica a convincere in pieno. Appaiono lontanissimi i tempi dei primi lavori, poiché l’evoluzione e la crescita stilistica sono state marcate, ma risultano lontani anche i tempi della pietra miliare Destroy The Opposition, in quanto appare sempre più evidente una virata verso soluzioni che, se da una parte rimangono violente e complesse, dall’altra risentono della presenza massiccia di mid-tempo. Non per la cosa in sé, sia chiaro, quanto per la capacità di catturare l’ascoltatore, la cui attenzione di tanto in tanto potrebbe calare. Il disco si conclude con due brani, At What Expense e Ethos Of Coercion, asfissianti nel loro incedere marziale ed a tratti troppo ripetitive e stiracchiate.

Tirando le somme, il nuovo parto dei Dying Fetus non mancherà di soddisfare una buona fetta della loro audience, in particolare coloro i quali hanno apprezzato gli ultimi due lavori. Descend Into Depravity è una nuova prova dell’assoluto valore della band, il cui nome è ascrivibile tra quelli dei capostipiti di un intero filone musicale, il deathcore, che tanta fortuna sta portando a giovani gruppi quali i Despised Icon ed i Job For A Cowboy, e nonostante i difetti di cui si è parlato sopra, rimane un lavoro interessante e godibile, pur piazzandosi nettamente dietro alle migliori produzioni di Gallagher e soci. La speranza per il futuro è che la formazione rimanga stabile, magari con l’inserimento di un secondo chitarrista per generare un impatto maggiore, e che possa tornare più letale che mai. Le carte in regola ci sono tutte, come già ampiamente dimostrato.

Luca Trifilio

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Tracklist:

1.Your Treachery Will Die With You
2.Shepherd’s Commandment
3.Hopeless Insurrection
4.Conceived Into Enslavement
5.Atrocious By Nature
6.Descend Into Depravity
7.At What Expense
8.Ethos Of Coercion

Line-up:

John Gallagher – voce, chitarra
Sean Beasley – basso, voce
Trey Williams – batteria

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