Recensione: Descending

Di Stefano Usardi - 4 Maggio 2017 - 9:23
Descending
Band: Wildhunt
Etichetta:
Genere: Thrash 
Anno: 2016
Nazione:
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80

Una copertina profondamente black (eseguita dall’artista italiano Paolo Girardi) raffigurante, chi l’avrebbe mai detto, una marcissima versione della caccia selvaggia già trattata da artisti come Arbo, introduce l’ottimo debutto (dopo un EP e uno split) dei Wildhunt, terzetto austriaco che, invece, propone un thrash metal che più old school non si potrebbe sognare. Dall’apertura di “Age of Torment” all’ultima nota della conclusiva title-track, infatti, i nostri espongono al mondo il loro amore sconfinato nei confronti della cara vecchia Bay Area e le sue caratteristiche sfuriate. Perfino la produzione, così scarna e fastidiosamente compressa eppure molto bilanciata per quanto riguarda l’equilibrio tra i vari strumenti, richiama alla mente quel particolare modo di diffondere la Parola. Giusto per chiarirci: immaginate i Metallica dell’era Burton, mescolateli con una manciata dei Dark Angel di “Time Does Not Heal” e dei primi Testament e condite il tutto con una spruzzata dei tedeschi Deathrow. Ad essere del tutto franchi, la resa vocale in alcuni frangenti non mi ha del tutto convinto, soprattutto quando si passa alla voce più cavernosa che vorrebbe strizzare l’occhio al growl ma che, in realtà, mi ricorda quella di un bimbo che vuol fare la voce cattiva, ma a parte questo lasciatemi dire che ci troviamo davanti a un signor album, strutturato eccellentemente e perfettamente equilibrato nei suoi vari aspetti, ed è proprio qui che i nostri si sono rivelati per ciò che sono, e cioè degli strumentisti capaci e ispirati, facendomi spalancare gli occhi quando ho appreso che si trattava di un album di esordio. Pur essendo piuttosto tecnico, infatti, questo “Descending” non cade mai nell’errore di alcuni giovani esordienti che, bramosi di esibire la propria preparazione, scadono fin troppo spesso nella spacconeria musicale, ma si mantiene anzi ben lontano da qualsivoglia sfoggio di bravura fine a se stesso rimanendo comunque sempre sul pezzo, variando il tono di ogni composizione senza snaturarla o appesantirla di fronzoli inutili. In aggiunta, va notato che i nostri non esitano ad affidarsi a soluzioni diverse dal mero e becero martellamento sonoro, se volete anche meno canoniche: ecco allora delicate aperture di chitarra acustica affiancate ai soliti riffoni compatti e secchissimi, impreziositi a loro volta da squarci melodici ma tutt’altro che melensi e fraseggi di chitarre gemelle d’alta scuola, il tutto supportato egregiamente da una batteria puntuale e fantasiosa e un basso decisamente presente ma non per questo invasivo. Le fulminanti accelerazioni tipiche del genere non mancano, così come i cambi di atmosfera, e vengono calibrati con un gusto tale da rendere ogni traccia interessante senza perdersi in funamboliche ma sterili esibizioni di tecnica. Solo in un paio di punti i nostri insistono un po’ troppo in alcuni passaggi che potevano essere sfrondati di più, come nella seppur ottima “History Deletes Itself”, ma si tratta veramente di dettagli insignificanti, peccatucci veniali trascurabilissimi, soprattutto alla luce del risultato finale. Il lavoro delle chitarre si mantiene sempre dinamico, sia nei pezzi più tirati e fulminei che in quelli lunghi e articolati (non sono rare le tracce che superano i sei minuti), e di certo si rivelerà più che soddisfacente sia per le vertebre degli ascoltatori desiderosi solo di mazzate nei denti che per i padiglioni auricolari più smaliziati e amanti delle atmosfere oscure e sinistre.
Nonostante il livello di questo “Descending” si mantenga piuttosto alto per tutta la sua durata, mi permetto di menzionare in particolare la già citata opener “Age of Torment”, nervosa e insistita, la frastagliata e a tratti Testament-ianaThe Wild Hunt”, la più canonica e caciarona “Thrill to Kill” (benedetta da alcuni squarci melodici da pollice alto) e la variegata “Crystal Deth (U.M.D.A.)”, una sorta di summa del Wildhunt-pensiero con i suoi continui cambi d’umore e l’attitudine muscolare, in cui coesistono sia l’anima battagliera che quella più sinuosa del gruppo.
Chiude l’album la breve title-track, outro strumentale dal mood quasi malinconico che aleggia leggera nell’aria mentre il trio d’oltralpe prende congedo in modo disteso dopo le sonore bastonate dispensate nell’ora appena trascorsa. Qualora non fossi riuscito a spiegarmi, “Descending” è un album notevole, capace di suonare sia moderno che old-style allo stesso tempo e soprattutto di trasmettere all’ascoltatore la giusta carica senza limitarsi a randellarne senza criterio i padiglioni auricolari, ponendosi come una solidissima base su cui sviluppare il proprio percorso musicale nei prossimi anni. Segnatevi il nome Wildhunt, signore e signori, perché se il buongiorno si vede dal mattino credo che questi tre austriaci faranno parlare parecchio di sé in futuro.

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