Recensione: Desolate Ways to Ultima Thule

Di Stefano Usardi - 7 Luglio 2018 - 9:00
Desolate Ways to Ultima Thule
Band: Northern
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2018
Nazione:
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68

Terzo album per gli statunitensi NortherN, anche se il primo con questo nome effettivo. I nostri, infatti, accompagnati dall’altisonante titolo di “band viking n°1 del Nord America“, nascono nel New Hampshire nel 2002 come Cold Northern Vengeance, e dopo due album di viking metal piuttosto arcigno ma con ancora pesanti influenze folk decidono di fare il grande passo, cambiare il nome (nel 2016) e tuffarsi di testa nel mare del black metal più atmosferico e articolato – la durata dei pezzi varia infatti tra i cinque minuti e mezzo e i sedici e mezzo. Questo passaggio si traduce, in “Desolate Ways to Ultima Thule”, in una sarabanda di suoni più freddi, grezzi e minimali rispetto al passato, eppure non privi di una certa aura evocativa e sinistra, a cui il misterioso quintetto aggiunge anche una nota epicheggiante di tanto in tanto per stemperare la malignità di fondo del combo (che comunque non supera mai i livelli di guardia).

L’album, introdotto da una copertina francamente piuttosto triste, si apre con le malinconiche note di “Reyn Til Runa”, breve intro atmosferica che apre la strada alla decisamente più corpacciuta “Fall into Winter”, della durata di undici minuti e mezzo, i cui blast beat iniziali di tipica scuola black lasciano rapidamente il campo libero a partiture più lente e serpeggianti, a loro modo ipnotiche, che si affiancano a riff gelidi e raglianti, rallentamenti acustici dal sapore folk e fraseggi di tastiera oscuri e pomposi. La voce, marcata stretta dal resto del gruppo, si fa cavernosa, sguaiata e lancinante a seconda delle necessità, e trasmette il giusto grado di straniamento affiancando agli intrecci delle solenni clean vocals anche rapide sfuriate di scream e growl. “A Wolf’s Angle (Abraxas Trance)” parte spietata, lanciata alla carica da un growl abrasivo, salvo poi pigiare sul freno per passare a un mood più solenne e rituale, complici anche i cori di voce pulita che di tanto in tanto si insinuano ululando tra una raffica tastieristica e un giro di chitarra per irrobustire il tasso ipnotico del pezzo. La pausa dissonante torna a far impennare i giri del motore, con i nostri che si lanciano di nuovo nel mondo dei blast beat a pioggia salvo poi cedere il passo a un fraseggio acustico e alle solenni note di un organo, che sfumano nel passaggio recitato finale che apre “Alaskan Ice”. Qui, dopo una introduzione narrata sorretta da melodie malsane, le velocità tornano a farsi più contenute, indulgendo in una certa dolorosa e incombente malignità spezzata, ma solo ogni tanto, da rapide quanto brevi accelerazioni che incrementano la sfacciataggine del riff portante. Nella seconda parte il brano si fa più ostinato, chiudendosi poi con un cupo proclama sorretto dal sibilo del vento. Un arpeggio raccolto e il profumo dei Bathory di “Blood Fire Death” – che peraltro si percepiscono un po’ dappertutto durante l’ascolto dell’album, seppur a diverse concentrazioni – aprono la combattiva “Woden’s Revenge”, decisamente la traccia più tipicamente viking del lotto grazie alle atmosfere rissose e al suo andamento propositivo e agguerrito, ma che ad essere sincero ho faticato a digerire, trovandola un po’ troppo banalotta e, alla lunga, abbastanza scolastica. Una citazione cinematografica, o almeno credo, introduce “Spell of Destruction”, cover di quel simpaticone che risponde al nome di Varg “Burzum” Vikernes. Ebbene, la vena malata che permea l’originale viene mantenuta e riproposta piuttosto bene anche in questa versione, seppur caricata di una certa maestosità latente, anche se in fin dei conti la canzone scorre senza lasciare grandi tracce di sè. Altra canzone, altra citazione cinematografica (stavolta dal Conan di Milius) come introduzione: “Live Free of Die” avanza boriosa e strisciante, pompando pathos e arroganza col progredire del minutaggio; la pausa centrale carica la tensione e apre all’intermezzo anthemico che, a sua volta, esplode di nuovo in un profluvio di riff gelidi sostenuti da cori virili e melodie arcigne, chiudendosi poi, nel finale, con un persistente profumo di hardcore punk.
Si arriva ora alla lunga “Exaltation from the Grave”, che dall’altro dei suoi 16:28 si permette di spaziare lungo tutto l’universo musicale proposto dai Northern, affiancando melodie fredde e riff raschianti ad improvvisi squarci acustici dall’atmosfera raccolta e narrativa. Il gruppo gioca bene le sue carte, affastellando la canzone su se stessa e avvolgendone le spire in cerchi concentrici per screziare la tipica ferocia del black metal di solennità maestosa e fraseggi più dinamici, quasi sbarazzini nel loro agile fluire. Una nuova scarica di gelida malignità apre la seconda metà, con le sciabolate di chitarre e sezione ritmica che concedono riposo solo in corrispondenza del rallentamento dilatato e a suo modo straziante che ci accompagna alla fine di una delle tracce migliori (anche se un po’ troppo prolissa) del lotto. Chiude l’album la versione alternativa di “Fall Into Winter”, per l’occasione sforbiciata di qualche minuto rispetto all’opener e resa in un intrigante adattamento di, diciamo così, folk contemplativo. L’insistenza dell’originale viene trasposta ottimamente, anche grazie agli intrecci vocali e all’atmosfera profondamente pagana che dona alla canzone un’intensità che non mi è affatto dispiaciuta, riverberata nel finale da un’incursione effettata che a sua volta introduce la chiosa finale costituita dalla musica di Hank Williams, leggenda del country a stelle e strisce che chiude l’album (in modo abbastanza inusuale, è vero, ma anche divertente) con la sua voce calda e classicamente western.

Dopo ripetuti ascolti, per dirla tutta, non so ancora come valutare “Desolate Ways to Ultima Thule”: in linea di massima l’album si rivela abbastanza interessante, emotivamente solido e tutto sommato ben eseguito, eppure lungo tutta la sua durata ho aspettato una zampata vincente che però non è quasi mai arrivata; gli spunti interessanti ci sono, impossibile negarlo, ma sono inseriti in modo un po’ confuso in una trama che non sempre tiene e che fatica a mettere in evidenza le varie sfaccettature proposte dal gruppo, finendo per perdere compattezza di tanto in tanto. Per questo non ho problemi ad affermare che i nostri si portano a casa la sufficienza piena senza problemi, risicando qualche punticino in più, ma sinceramente dal gruppo viking numero 1 del nord america forse mi aspettavo qualcosina di più: ecco perché mi sento di consigliare “Desolate Ways to Ultima Thule” solo agli amanti di certe sonorità.

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