Recensione: Destroyer of Mankind

Di Daniele D'Adamo - 21 Febbraio 2017 - 0:00
Destroyer of Mankind
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2017
Nazione:
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60

Gli Invasion, seppure band misconosciuta ai più, sono attivi sin dal 1989 e, da allora, hanno pubblicato solo quattro full-length di cui l’ultimo, “Destroyer of Mankind”, è nato con tutte le carte in regola, perlomeno a detta della label Abyss Records, per far compiere alla band di Michigan City – finalmente – il gran salto in avanti.

Le formazioni di vecchia data, in generale, salvo quindi casi particolari, restano per forza di cose ancorate ai cliché natii. Ai dettami stilistici, cioè, che ne hanno dato origine, forma, sostanza. Gli Invasion non sfuggono a questa regola e propongono quindi un sound assolutamente normale, sufficientemente lontano dall’old school, ma anche da qualsiasi estensione diversa dai meri atti di base che si devono compiere per suonare death metal.

Death metal e basta. Peraltro, campo artistico cui non è facile, oggi, uscire, data la numerosa varietà di contaminazioni attive. Il quartetto dell’Indiana, invece, macina il suo stile asciutto, semplice e lineare senza mai discostarsi dalla via maestra.

Un pregio, poiché rende “Destroyer of Mankind” un album totalmente fedele alla linea. Quasi a voler ottemperare davvero alla rigida disciplina militare che, come tema portante, fornisce le idee per la redazione dei testi.

Un difetto, giacché una volta preso cognizione di come suonino i Nostri, non c’è più alcun pericolo di trovarsi davanti a delle sorprese. Il che, purtroppo per loro, accade relativamente presto, se non addirittura subito.

Tranne che per il bell’assolo di chitarra di ‘A Satisfying Death’, difatti, tutte le song scorrono fluide e senza intoppi ma anche senza slanci. Senza che si crei, cioè, particolare empatia fra la formazione nordamericana e chi ascolta. Riff granitici, ovviamente (1989…) di scuola thrash, blast-beats a ripetizione. Accelerazioni, rallentamenti. Sfuriate devastanti, mid-tempo rocciosi. Sempre. Costantemente. Trainati dalla roca ugola di Phlegm, cantore che non si arrende, lui no, alla vecchia scuola; evitando quindi di addentrarsi nei territori dominati da growling, screaming, inhale, hars vocals, ecc. Delineando pertanto le linee vocali con il classico stile stentoreo, ma neutro, dei primissimi frontman death metal.

Il risultato finale, naturalmente, è la noia. Dopo pochi brani, come più su già evidenziato, più o meno si sa tutto di “Destroyer of Mankind”; circostanza che rende quasi inutile proseguire oltre, provocatoriamente parlando.

L’arcigna consistenza di un sound rodato e perfettamente adulto nelle sue forme, però, dà anche una sensazione di sicurezza nei propri mezzi piacevole, da parte degli Invasion che, invero, sfortunatamente per loro, altro non hanno, di interessante e da mandare a memoria per le future generazioni.

“Destroyer of Mankind” si salva in corner al novantunesimo minuto, insomma, il che è un po’ poco, data la storia che gli Invasion stessi hanno dietro alle spalle. 

Daniele “dani66” D’Adamo

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