Recensione: Destroyer of Worlds

Di Daniele Balestrieri - 30 Giugno 2003 - 0:00
Destroyer of Worlds
Band: Bathory
Etichetta:
Genere:
Anno: 2001
Nazione:
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50

Devo dire che non è stato facile evitare per così tanto tempo di recensire quest’album. Il nervosismo era nell’aria da molto tempo, e ogni tanto qualcuno usciva dal marasma e si chiedeva come, dove e quando qualcuno si sarebbe preso la briga di recensire Destroyer of Worlds. Catalogato ormai dall’unanimità come l'”album brutto di Bathory”, Destroyer of Worlds è stato sulla bocca di tutti per un tempo indefinibile fin dal giorno della sua uscita. Si è parlato di lui tanto quanto si è parlato di Hammerheart, di Blood on Ice, di Under the Sign of the Black Mark. Molti hanno sentito quest’album e ignorano magari l’esistenza di Octagon o Requiem. Perché molti dicono che “ciò che tocca Quorthon diventa oro”, e proprio per questo DOW ha fatto parlare tutti. Quest’album racchiude l’odio degli anti-bathoriani, e rappresenta un’eccellente valvola di sfogo per i bathoriani. Parlare di Bathory con un fan di Bathory non è assolutamente facile. Nella discografia di questa “band” si sono succedute hit talmente clamorose che un fan non riesce a fare altro che lodare una serie apparentemente sterminata di album, citando almeno 10 canzoni come le “più belle del mondo”. E quando qualcuno gli chiede “sì, ok, ma possibile che siano tutti album splendidi?” – a quel punto entra sempre in campo la magica frase “beh, no, c’è Destroyer of Worlds”. Un comodo capro espiatorio per tutti insomma, un modo per bilanciare una carriera che ha segnato la storia del black e del viking, un metodo per dire “sì, ma anche Quorthon è un essere umano”.

Ma allora, è davvero così brutto questo Destroyer of Worlds? Beh, non voglio cedere alla comodità di rispondere affermativamente senza riserve. Destroyer of Worlds è un album strano, che ha come pecca principale il fatto di essere stato accantonato da tutti senza essere ascoltato un numero di volte sufficiente per metterne in luce le reali potenzialità. Tanto per cominciare, un giudizio obiettivo non può non prescindere dal fatto che esistano alcune canzoni eccellenti, in grado di combattere ad armi pari con le migliori produzioni dell’epoca d’oro di Quorthon. Probabilmente chi già lo conosce sa di cosa sto parlando. “Lake of Fire“, la opener, è infatti una splendida opera del Quorthon più liricamente ispirato, un Quorthon evidentemente reduce dalle prodezze di Blood on Ice e memore del rammarico di Twilight of the Gods, che apre ancora una volta i suoi strumenti di un’epicità assordante e accoglie una struggente, lirica traccia di puro epic costruita su un riff molto semplice, spalleggiato da uno dei suoi classici cori evanescenti, e modellato da una chitarra acustica che esiste con l’unico scopo di scandire le solenni battute che promettono un album di dimensioni spaventose. E non c’è niente da fare, bisogna dire che l’album procede a gonfie vele anche con la seconda, “Destroyer of Worlds“, una delle mie canzoni preferite di sempre, che inizia con una specie di “gorgoglio” elettronico molto basso, che poi sarà una costante di tutto l’album, e prosegue con dei riff scatenanti impregnati di una melodia orientaleggiante, supportata a dovere da una buona batteria e da un cantato particolarmente sgraziato, che comunque non confonderà più di tanto i fans, ormai abituati alla non proprio perfetta voce di Quorthon. Canzone, questa Destroyer of Worlds, dal testo particolarmente epico, e sapientemente articolato grazie anche ai sempiterni cori e alle chitarre che ripetono riff di un gusto particolarmente retrò, anche se non di quella classicità spasmodica che impregnava Lake of Fire, in grado di figurare tranquillamente in dischi di 4 o 5 anni prima. Il grido di vittoria prosegue con “Ode“, probabilmente la canzone migliore dell’album. Epica, tragica, che vede un Quorthon ispiratissimo seguire le linee di riff come al solito semplici ma di grande impatto, coadiuvate dai soliti giri di chitarra classica che aggiungono spessore e grande simbolismo a una canzone che fa del testo probabilmente il suo punto focale, con la sua carica di mistero e di significato. Il disco sembra essere effettivamente una bomba, peccato che la bomba esploda qui.

Dopo Ode infatti il disco muta completamente faccia, si scrolla di colpo dalle spalle tutto l’epico che aveva costruito nelle prime tre tracce e si getta nel turbine dello sperimentale, in un miscuglio terrificante di thrash, black e quello che si potrebbe definire quasi “nu”, per cui un pazzo potrebbe anche dire che Bathory oltre ad aver inventato il black e il viking potrebbe aver anche inventato una contaminazione particolarmente innovativa di sonorità metal e di sonorità vagamente nu. Ora, c’è una piccola scuola di pensiero che vede in Chaos A.D. dei Sepultura il primo disco nu metal della storia. Io dissento nella maniera più assoluta, le sonorità nu sono ben altre, e questo Destroyer of Worlds in un certo senso potrebbe anche avvicinarcisi. Ciò che accoglie l’ascoltatore è infatti “Pestilence“, una specie di gorgo thrash in cui batteria e chitarre vengono tormentate continuamente e Quorthon tira fuori la voce fregandosene dei tempi e delle melodie (percepibili solo a tratti), e urla, mormora, canta sguaiatamente senza alcun filo logico. Il mixing inoltre appare leggermente sballato, e la voce di Quorthon risulta decisamente troppo alta rispetto ai restanti strumenti, il che risulta leggermente ostico alle orecchie. Il turpe trattamento prosegue con “Bleeding“, che reintroduce la tastiera rimbombante di Destroyer of Worlds e la contestualizza in un ambiente strano, a metà tra l’heavy e il thrash, con una registrazione che peggiora ancora ma guadagna in melodia, tanto che ricompaiono i cori a cui è tanto affezionato l’artista svedese. Questa, e anche altre canzoni, mi ricordano come modo di fare e timbro di voce le prove di studio dei Megadeth, in particolare di Symphony of Destruction – contenuta nell’edizione giapponese di Hidden Treasures – il che fa pensare, più che a un album da studio, a una produzione abbastanza artigianale. C’è da dire che con la seguente “109” l’album crolla vertiginosamente, essendo insieme a “Liberty and Justice” probabilmente una delle canzoni più brutte che Quorthon abbia mai prodotto, disgustosamente ripetitiva nei suoi riff oppressivi senza alcun tipo di legame, solo una batteria furiosa, chitarre incomprensibili e una voce ai limiti del parlato. Decisamente trascurabile, se non fosse per una seguente “Death from Above” particolarmente brillante per essere parte di un album simile. Torna il rimbombo di Destroyer of Worlds, e torna anche quella specie di Thrash con voce brutalizzata che ormai avrà abituato chi si è messo ad ascoltare quest’album dall’inizio. Interessante il finale con la sirena della contraerea, un’inserzione rumoristica che ben rende l’idea del concetto espresso da Quorthon: guerra, bombardamenti, violenza. Tema ugualmente trattato in “Kill Kill Kill” e “Krom“, finché non si giunge a un’ennesima sorpresa della one-man band più chiacchierata del globo. Quorthon infatti decide di dare sfogo alla sua grande passione per l’hockey su ghiaccio registrando una interessante “Sudden Death“, canzone a mio giudizio tra le migliori del “lotto thrash”, in cui si sentono distintamente tra gli urli di Quorthon diversi effetti quali lo stridere dei pattini sul ghiaccio, l’organetto del segnapunti, i fischi dell’arbitro e l’incitare della folla. La canzone è tenuta insieme da una melodia semplice eppure abbastanza catchy, il che la rende particolarmente godibile dopo la confusione delle tracce precedenti. Il problema è che la maggior parte degli ascoltatori già avrà perso interesse all’ascolto dopo tante canzoni difficili, ed è un vero peccato poiché dopo una melodica, interessante “White Bones” – che vanta forse la prova vocale peggiore della storia di Quorthon – l’album si chiude con un ritorno ai grandissimi fasti del Viking di metà anni ’80 con una “Day of Wrath” spaventosamente epica, drammatica, luminosa, raggiante, ricca di cori e di passione, un toccasana dal gusto quasi paragonabile alle tracce più possenti di Blood Fire Death. Ottima traccia di chiusura per un album così difficile, peccato che l’avranno sentita in pochi e che probabilmente sarà ricordata da ancor meno persone.

Il concetto è semplice. Questo album – recita il libretto – è dedicato ai fans di Bathory. “You are the best”, dice Quorthon. Non possiamo che ringraziarlo, perché è proprio da un album del genere che si vede il vero fan. Non si sa bene cosa avesse in mente durante la registrazione. L’unica spiegazione che viene in mente è che Lake of Fire, Destroyer of Worlds, Ode e Day of Wrath siano state composte utilizzando materiale di scarto dai tempi di Hammerheart – e probabilmente anche di Blood on Ice, il quale fu a sua volta composto utilizzando una buona mole di materiali di scarto dei tempi della trilogia viking. Il giudizio finale è abbastanza imbarazzante, comunque. Bocciare Destroyer of Worlds? Promuoverlo? Rimandarlo? Difficile dirlo. Il vinile originale ancora affolla gli scaffali della Black Mark, così come il picture disc. La critica l’ha bastonato senza troppi complimenti, ma l’ascolto continuativo è alla base dell’apprezzamento di questo album. Mi rendo purtroppo conto che Bathory è semplice da digerire quando si tratta di Blood on Ice o Nordland, e diventa immediatamente ostico se si parla di un “The Return…” o di “Octagon“. Da fan ritengo quest’album un mix di grandi canzoni, di canzoni mediamente interessanti e di canzoni decisamente al di sotto della media. Uscendo dal pensiero di un fan, non posso fare altro che aggrottare le sopracciglia: quest’album non vale il prezzo pieno, e per questo si merita un giudizio severo. Il mio consiglio all’ascoltatore generico è quello di considerarlo un mini-CD che comprende le quattro canzoni epiche già citate. Se Destroyer of Worlds viene acquistato con questo spirito (e pagato non più di 6-7 euro), l’album può tranquillamente ottenere voti eccellenti, tra l’85 e il 90. Ma un mini-CD – effettivamente – deve anche avere un prezzo di un mini-CD, e Destroyer of Worlds è ancora venduto a prezzo pieno. Le altre canzoni non valgono quanto sperato, alcune sono proprio inascoltabili, e un paio si lasciano ascoltare. Ma nel confronto con altri album e con altri artisti, questo prodotto è, purtroppo, carente. E se penso che 60 è la sufficienza, beh, purtroppo quest’album non merita la sufficienza musicale. Con rammarico per un grande artista come Quorthon quindi, rimando quest’album alla prova successiva – che supererà brillantemente grazie a capolavori del calibro di Nordland I e Nordland II.

Un album difficile, chiacchierato, e accantonato con troppa fretta dalla maggior parte degli ascoltatori. Un buon fan riuscirà comunque a vederci dentro il Quorthon rivoluzionario e arrogante, il Quorthon “che se ne frega” delle convenzioni e dà adito e combustibile alla propria fantasia. Il resto degli ascoltatori ci vedrà un prodotto irritante, scadente, paragonabile ai tentativi di far musica pesante di un ragazzino di 14 anni. Per questo motivo, l’acquisto è consigliabile unicamente ai fans e a coloro che sono interessati allo studio di un apparente “salto nel vuoto” di un nome storico nel metal. E del resto, non è proprio questo lo scopo del CD? Il libretto parla chiaro: l’album è dedicato ai fans. Perché Quorthon evidentemente sapeva bene che i fans avrebbero superato la prova, mentre gli “altri” avrebbero fallito. E che fosse una vecchia volpe, beh, non è mai stato un mistero.

Tracklist:

1 – Lake of Fire
2 – Destroyer of Worlds
3 – Ode
4 – Pestilence
5 – Bleeding
6 – 109
7 – Death from Above
8 – Kill Kill Kill
9 – Liberty and Justice
10 – Krom
11 – Sudden Death
12 – White Bones
13 – Day of Wrath

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