Recensione: Destructive Device

Di Alessandro Marcellan - 21 Dicembre 2008 - 0:00
Destructive Device
Band: Mindflow
Etichetta:
Genere:
Anno: 2008
Nazione:
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68

Dove eravamo rimasti? 2006: “Mind Over Body”, ovvero un fiume in piena, un vortice di idee, un flusso di correnti irrequiete e imprevedibili, da solcare solo se ben attrezzati e predisposti. Ebbene, dimenticatevi di queste rotte avventurose (almeno in parte), perché i Mindflow del 2008, con “Destructive Device”, si presentano fondamentalmente in una nuova veste, più immediata, più diretta, più heavy, meno cervellotica ma anche meno creativa.

Il canovaccio di questa creazione si dipana per lunghi tratti da un’unica matrice di base, offerta già nella title track iniziale: breve introduzione sintetizzata, seguita (strofe e refrain) da un riffing aggressivo tendente al thrash ma decisamente moderno, guidato all’unisono dalla chitarra di Rodrigo Hidalgo e dalle tastiere industrial di Miguel Spada, e associato a una sezione ritmica proggy talvolta in controtempo col cantato di Danilo Herbert. Alcuni dei trademark della band sono quindi ancora presenti, e tuttavia qui vengono sovente intrappolati nello stretto di una classica forma-canzone, cosicché, in molti dei brani in scaletta, strofa e ritornello si rincorrono praticamente senza soluzione di continuità, lasciando poco spazio alle sorprese, quasi sempre poste a 3/4 brano, dove un bridge di collegamento spesso sostituisce anche in toto le fasi strumentali: non aspettatevi assoli di chitarra, e anche le sporadiche incursioni soliste delle tastiere (come nella citata track 1, in “Under an Alias” e nella più avvincente e varia “Inevitable Nightfall”) si inseriscono proprio laddove ce le aspettiamo, ossia prima dell’ultimo refrain. La trama si sussegue con il medesimo cliché nelle comunque intriganti “Lethal” (laddove l’effetto-sorpresa a 3/4 brano è interpretato dalle inattese -queste sì- death-vocals del buon Herbert) e “Fragile State of Peace” (più cadenzata ma con ritornello molto Anthrax): insomma, tutti brani più o meno buoni…ma manca quel quid che possa fare la differenza. E non mi riferisco solo, in negativo, alla monocorde “Not Free Enough” o alla catchy -ma piatta- ballad “Breakthrough” (molto più efficacie nel suo tema in chiave sferzante di “Said and Done”), la quale in sede di preview aveva fatto temere il peggio.

A scanso di equivoci: il disco scivola via bene (a parte l’incombente senso di noia che deriva dalla siccità di “variazioni sul tema”), i riffs metallici che ammantano il tutto generalmente non dispiacciono, i ritmi risultano trascinanti (con cambi non infrequenti), e il piglio aggressivo dell’album, peraltro, ben si amalgama con il concept del disco che (supportato anche graficamente da un artwork vivace e ancora una volta di primissimo livello), si dispiega con buon senso critico fra intrighi di intelligence e collegate riflessioni etico-morali su servizi segreti, cospirazioni, libertà e ideali frustrati dalla logica superiore della “missione” e delitti preventivi eticamente accettati (?) dal senso comune della società. Anche gli onnipresenti effetti elettronici appaiono sempre un valore aggiunto e non un fastidioso ammiccamento modernista o mainstream, e la stessa produzione (curata da Ben Grosse, già con Marylin Manson, Slipknot e altri esponenti nu-alternative) è assai più curata e limpida rispetto all’album del 2006. Infine le linee vocali appaiono sufficientemente originali, e la prestazione del già menzionato Danilo Herbert si conferma multicolore e, nuovamente, non sfigura al cospetto dei suoi illustri colleghi di riferimento (chi ha detto Gildenlow?). Ma dov’è finito l’eclettismo che aveva contraddistinto il precedente album? Chi vorrebbe un ascolto più impegnativo e di difficile assimilazione (da “lacrime e sangue”, come scrissi a suo tempo) sarà accontentato, ma soltanto o per lo più nei minuti di recupero. Perché se la scelta di base è stata quella su cui si speculava all’inizio, per fortuna “Inapt World” ci dice anche altro, e questa semi-ballad in cui il “terzo tempo” si insinua sottoforma di una martellante evoluzione thrash-progressive non inganna, perché poi…”dove eravamo rimasti?”…ciò che sembrava un innocuo ruscello sfocia nell’oceanica “Shocking Deathbed Confession”, 11 minuti che ci restituiscono a tempo scaduto i Mindflow del 2006, esuberanti, fuori da ogni schema, con i noti marchi di fabbrica ora ben miscelati in un impasto composito e “da intenditori”: proprio lì, isolata fra le due tracce “cinematografiche” di solo sampling pinkfloydiano (la raggelante descrizione di una tortura), la suite “della confessione” è anche la rivelazione che i Mindflow hanno operato delle scelte, ma che sono comunque vivi e sanno, se vogliono, stupire ancora. Ma non posso nascondere, alla fine dei 70 minuti, un pur moderato grado di insoddisfazione.

“Destructive Device” è un buon disco heavy-prog moderno che raggiungerà il suo obiettivo di allargare il bacino d’utenza di una band dal grande valore, e tuttavia è un contenitore che tradisce un potenziale tanto enorme quanto poco sfruttato, con alcune delle limature evolutive a suo tempo ipotizzate che, probabilmente, sono state sospinte oltre il dovuto. Forse la dimensione finale e migliore dei Mindflow sarà la prossima, raccoglierà il lato “diretto/heavy” e quello “tortuoso/progressive” in egual misura, e tutti saranno lì ad applaudire; non vorremmo però che la band si adagiasse troppo, come in questa occasione, e alla lunga decidesse di stanziarsi in un porto sicuro, certa di aver trovato la via della gloria: il prossimo viaggio ci darà molte risposte in merito…per adesso, il capolavoro che avevamo pronosticato è comunque rimandato.

Alessandro Marcellan
“poeta73”    

Tracklist:
1. Destructive Device 06:32
2. Lethal 05:29
3. Breakthrough 05:08
4. Under an Alias 04:05
5. Inevitable Nightfall 05:39
6. Said and Done 05:18
7. Fragile State of Peace 06:04
8. Not Free Enough 07:08
9. Inapt World 06:24
10. First Things First 03:35
11. Shocking Death Bed Confession 11:50
12. The Screwdriver Effect 03:05  

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