Recensione: Devil On My Shoulder

Di - 29 Marzo 2015 - 0:01
Devil On My Shoulder
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2014
Nazione:
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80

Gli Hell In The Club sono una band che sventola la bandiera tricolore – verde bianca e rossa – ed anche se sono alla seconda prova discografica, all’ascolto di “Devil On My Shoulder”, sono rimasto con un piacevole senso di disorientamento.
Dave il cantante proviene dagli Elvenking, Andy il bassista ha legato il suo nome ai Secret Spere e Fede è stato batterista nientemeno che dei Death SS. Tutte band che non hanno bisogno di nessuna presentazione ed il solo Picco, il chitarrista, è conosciuto per aver suonato esclusivamente con tribute band dedicate ad Iron Maiden e Toto.

Nei tre nomi più noti si esplora quasi tutto il panorama del metal e le sue diramazioni nel folk, nel power, nello speed, nel progressive, nel black e nel death e cosa suonano gli Hell In The Club? Praticamente le sole diramazioni che non ho citato, come Hard Rock melodico, AOR e glam. Questo è secondo me il segreto della riuscita di questo progetto, perché disorienta tutti e lo fa lasciandoci a bocca aperta, con ottimi brani trascinanti, allegri, frizzanti, melodici: chi fa la differenza, senza togliere nulla agli altri altrettanto bravi musicisti, è proprio il meno conosciuto, il chitarrista Picco, che in ogni brano riesce a dare splendide pennellate di classe chitarristica.
“Bare Hands” ha un riffing che rispecchia il class metal degli anni ottanta, con l’ugola di Dave che sa essere intensa ed anche un po’ graffiante ed il guitar solo di Picco, preciso, breve e penetrante; “Devil On My Shoulder” è invece tra i Bon Jovi ed un po’ di glam (date un’occhiata anche al video, ne vale la pena).
Il cd prosegue tra cori anthemici, refrain accattivanti ed orecchiabili, fraseggi chitarristici di tutto rispetto e brani come “Beware The Candyman” (breve, veloce, rock’n’roll e molto Motley Crue), come “Proud” (tra i Bon Jovi più aggressivi ed un Hard Rock melodico di classe) ed ancora come “Whore Paint” (dal sound più roboante e metal).

Tralasciando alcuni pezzi, non perché inferiori agli altri, ma per il solo gusto di farveli scoprire da soli, si prosegue in grande stile anche con episodi del calibro di “Toxic Love”, dal tocco più metal ed ancora con “Muse” e le sue aperture acustiche e romantiche – oltre alle brevi ma bellissime architetture chitarristiche di Picco – ed ancora con “Snowman Six”, dove la band torna a travolgere con un sound robusto ed aggressivo.

Il finale? Lo sveliamo noi! “No More Goodbyes” riprende quel gusto per l’Hard Rock melodico e l’AOR e “Night” sembra appartenere anche all’Universo Van Halen, periodo Hagar.
Un progetto che sembra diventato una vera e propria band e questo non può che farci piacere…

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