Recensione: Devil’s Hand

Di Fabio Vellata - 11 Dicembre 2018 - 0:01

Definire la dimensione artistica di un chitarrista, dopo tutto, è piuttosto facile. Non servono nemmeno particolari nozioni tecniche, eccessive conoscenze o esperienze accessorie.
Basta imparare a riconoscerne “la voce“. Dove per “voce”, non si intende quella prodotta dalle corde vocali, ma proprio dalle sei corde della chitarra.
Un grande chitarrista ha questo, più degli altri: un suono distintivo, riconoscibile, personale. Quasi irripetibile.
Prendiamo un Jimi Hendrix. O un Santana. Magari un Angus Young, un Van Halen, un Eric Clapton. Pure un Mark Knopfler.
Per stare in tema di nomi che al momento sono tornati fortemente in auge, chiamiamo in causa l’eterno Brian May
Già… la sua Red Special aveva ed ha un suono praticamente inconfondibile, irreplicabile. Unico. Tre note e sapevi che era lui a suonare.

In questo novero di grandi, che alle sei corde hanno saputo dare una connotazione tanto personale da risultare pressoché univoca, andrebbe probabilmente iscritto anche il nome del meno celebrato, eppure altrettanto abile, Mike Slamer. In giro da tantissimi anni, con una carriera spesa lungo quarant’anni di album di ottima fattura, Slamer non ha mai ricevuto particolari riconoscimenti, ne è mai stato candidato all’inserimento in qualche ipotetica “Hall of Fame” dei maestri della sei corde.
Eppure, senza possibilità di smentita, il suo suono è uno di quelli che riconosceresti tra mille. Sin dai tempi di Steelhouse Lane e Seventh Key, la chitarra di Slamer è stata un marchio di fabbrica che ha firmato come una griffe le canzoni: dopo averne frequentato per qualche tempo lo stile, è divenuto quasi immediato ed istantaneo identificarne i connotati e le peculiarità. O, in altri termini, “la voce” di cui parlavamo poc’anzi.
Una voce – o meglio, un suono di chitarra –  che si ripropone con fulgida esuberanza pure nel nuovo progetto elaborato da Slamer, questa volta in compagnia di un ottimo singer come Andrew Freeman, frontman dei Last in Line affermatosi nel giro di breve come uno dei migliori esponenti della nuova generazione di cantanti hard rock.

Eccellente chitarrismo e corde vocali d’acciaio: la nuova band così costituita ed identificata con il mefitico nome di Devil’s Hand, in effetti, ha dalla sua due dei principali requisiti necessari nel tentare d’imbastire con successo un album di buon hard rock. 
Abbiamo parlato di hard rock a ragion veduta e non senza averne valutato il senso: a dispetto di ciò a cui ci aveva abituato sinora Slamer – prioritariamente orientato sugli accenti di un AOR scintillante e mai ruvido – pare proprio che, questa volta, siano i toni più urgenti, torvi ed aggressivi del rock duro a rendersi protagonisti assoluti della scena.

Rock duro che, come ovvio, non prescinde però da qualche raffinatezza, nella produzione come nel songwriting.
I brani sono spesso lanciati e tambureggianti, ma non rinunciano all’orecchiabilità ed al coro prepotente ed immediato. Si prenda, per dare un esempio istantaneo, l’iniziale “Alive”: la chitarra domina, la voce troneggia ed il ritmo incalza. La melodia ad ogni modo non manca ed è onnipresente, tanto da ritagliarsi un ruolo primario nell’intera composizione.
Il nocciolo di Devil’s Hand è proprio lì, in questi pochi ingredienti che ben miscelati danno origine a qualcosa di parecchio apprezzabile e stimolante: buonissime individualità, taglio raffinatamente hard rock e qualche armonia di qualità che sappia esaltare il piacere d’ascolto.
Verrebbero facili ed a portata di mano alcuni paragoni con Bad English ed House of Lords, evidenti muse ispiratrici di brani quali “Falling In“, “Another Way“, “Devils Hand” e “Heartbeat Away“. 
E insomma… dite se è poco…

Altrove le cose si fanno ancor più torride: “Drive Away” e “Push Come to Shove” sono speed song con risvolti bluesy che poggiano, oltre che su di un riffing tagliente, pure su vocals aggressive e veementi. Una dimostrazione di come il talento di Freeman non sia decantato “tanto per”, ma possieda basi molto concrete.
Chiudono il cerchio le radici quasi sudiste di “One More Time” ed “Unified“, il grintoso modernismo notturno di “Rise Above It” e l’immancabile slow “Justified”, ulteriori elementi di un album che anche nella varietà di stati d’animo ha qualcosa di interessante da offrire.

Tirate le somme, ascoltato più volte, valutato con calma, non possiamo evitare di scendere alla solita conclusione che si affaccia ogniqualvolta Slamer sia protagonista di una nuova uscita.
Con un suono del genere, un songwriting di questa classe ed i talenti messi in campo, non poteva trattarsi d’altro che dell’ennesimo centro pieno.

Un disco da ascoltare ad alto volume. Per sentirsi meglio. Per far salire un po’ di adrenalina in corpo. Per apprezzare, ancora una volta, la musica di qualità.
E per stringere la mano a quel “diavolaccio”, irridente ed adorabile, che si fa chiamare “hard rock“…

 

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