Recensione: Diabolus Terrible

Di Marco Tripodi - 11 Settembre 2017 - 8:00
Diabolus Terrible
Band: Jim Rotten
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2017
Nazione:
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57

Scritto, suonato, registrato e prodotto da Jim Rotten, dalla A alla Z. Sembrano i tempi dell’autarchico Jeff Waters, quando il climax degli Annihilator era bello che trascorso ed il guitar hero canadese si industriava a fare sistematicamente tutto da sé. Anche a livello di sonorità, benché “Diabolus Terrible” (terribile forse come quello ritratto in copertina di “Refresh The Demon“, a sua volta ispirato a quello di “Abominog” degli Uriah Heep) non abbia granché a spartire con gli Annihilator, degli appigli tuttavia ci sono. “FHL” o “Populist” ad esempio rimandano a quell’atteggiamento concreto, scarno e furente che anche Waters in alcuni momenti della sua carriera post anni ’80 ha incarnato. Tutto sommato sono un paio di pezzi che non sfigurerebbero poi troppo su album come i recenti “Metal” o “Annihilator“, produzioni che in verità hanno poco da dire  alla fan-base di casa Annihilator ma che stanno finendo col caratterizzare sempre più l’approccio al songwriting dello spompato Waters. Detto questo, e frapposti tutti i dovuti “se” e “ma” agli eventuali paralleli tra la band di Ottawa e l’asburgico Rotten, un disco ome “Diabolus Terrible” va confinato sostanzialmente sotto l’etichetta metal, pur con qualche precisazione.

Il nick Rotten vorrà alludere a qualcosa ed infatti uno spirito punk-hardcore è piuttosto evidente nelle composizioni dell’album. Brani crudi, diretti e spigolosi, con qualche sfumatura in più magari nel caso di “Invaders” (la più rotondamente heavy del lotto) e “One Moment Of Silence“, momento più rilfessivo ed emotivo all’interno delle imprese del diavolo terribile (che poi così terribile ad onor del vero non sembra….). Rotten corre a perdifiato dall’inizio alla fine, per sei canzoni effettive, poiché delle nove presenti in scaletta tre sono brevi intermezzi strumentali. Poco più che un EP insomma. Dal suo lavoro emerge indubbiamente genuinità e voglia di fare, Rotten pare uno sincero, con tanta voglia di pestare gli strumenti e dire la sua in musica; d’altro canto è pur vero che l’album non lascia grandi tracce di sé a fine ascolto. Si tratta di un lavoro dignitoso ma (ancora) trascurabile, marginale, con poche frecce al proprio arco per guadagnarsi qualche riflettore e proiettare il nome di Jim in prima pagina.

La sua biografia parla di un amore spassionato per il blues, tanto da aver pubblicato due titoli con il project Blues Bastard (“Same” nel 2012 e l’EP “Bloody Presents” nel 2014). Nel 2000 come Jimmy Rotten era già uscito “Antistar” e prima ancora come Rotten un demo nel ’90 (“Aggression“). Nemmeno il continuo aggiustamento e ricalibramento del nome aiuta a memorizzare il brand Rotten, ma il vero nodo da sciogliere rimane il songwriting, ancora eccessivamente dozzinale, gracile ed inconsistente. I muscoli ci sono, ma manca tutto il resto.

Marco Tripodi

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