Recensione: Digimortal

Di Daniele D'Adamo - 4 Novembre 2007 - 0:00
Digimortal
Band: Fear Factory
Etichetta:
Genere:
Anno: 2001
Nazione:
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80

Dopo tre anni da Obsolete (1998, Roadrunner) e sei anni da Demanufacture (1996, Roadrunner), autentici capolavori in ambito non solo Death ma Metal in generale, i Fear Factory danno quindi alle stampe, nel 2001, Digimortal, loro quarta fatica discografica. La formazione, per l’ultima volta, è ancora quella originaria, ovvero composta da Burton C. Bell (vocals), Christian Olde Wolbers (bass), Dino Cazares (guitars) e Raymond Herrera (drums ).

A parere di chi scrive, Digimortal chiude l’intervallo temporale della massima espressione artistica dell’act californiano: la trade Demanufacture/Obsolete/Digimortal, che non a caso è stata concepita sempre con la stessa formazione, rappresenta una sorta di percorso omogeneo e coerente con uno stile, unico nel panorama musicale Metal mondiale, che si è mantenuto sempre legato agli stilemi caratteristici coniati dal gruppo stesso, pur con sfumature via via diverse ed originali. Se con Demanufacture, infatti, c’è stata la magnificazione del groove meccanico/cyber-tech, con Obsolete quella del groove meccanico/oscuro e potente, con Digimortal il gruppo completa la propria evoluzione stilistica con un groove meccanico/elettronico.

E questo nuovo stile, legato al concept della sintesi fra uomo e macchina, si può immediatamente rilevare in What Will Become, brano di apertura del disco, dove l’introduzione è chiaramente ispirata ad un electronic-sound dagli echi lontanamente provenienti da certe produzioni musicali della metà degli anni ’70, ove l’elettronica faceva capolino, per la prima volta, nella creazione musicale. Ma subito dopo, nella strofa, il gruppo riprende a macinare il proprio sound roccioso, meccanico e massiccio. Molto articolata come base ritmica, soprattutto per le parti di batteria, la canzone prosegue con regolarità sino al pre-chorus e chorus, dove Burton C. Bell urla tutta la sua rabbia interiore, con un cantato aggressivo e marcato, in un tono generale dalle tinte oscure e vagamente angoscianti. Analogo inizio per Damage, con una voce filtrata in maniera da ricordare anche in questo caso produzioni musicali elettroniche passate, dove però il riffing meccanico di Dino Cazares alza subito la potenza della canzone, con una strofa sottolineata da un riuscitissimo “giro” di sintetizzatore. Anche in questo caso, coerentemente al brano precedente, pre-chorus e chorus sono cantanti da Burton in maniera vigorosa ed amelodica. Nemmeno il tempo di tirare il fiato, ed è il turno della title-track, Digimortal. Partenza dura e rocciosa, con una strofa minimale, la canzone presenta finalmente un ritornello classicamente melodico ed orecchiabile, in antitesi con la costruzione generale del pezzo stesso, ricchissimo di effetti elettronici e aggiunte di sintetizzatore.

Inizio dai riff super-meccanici di Dino per No One, con uno strano effetto di sintetizzatore che ricorda una sorta di “trapano avvitatore”. La canzone, armonica nella costruzione del pre-chorus, si irrigidisce del ritornello, cantato in modo bellicoso ed anthemico da Burton. Si arriva quindi a Linchpin, “hit” del platter, da cui è stato anche tratto un interessante e ben fatto video in merito al concept sopra descritto. Sempre molto granitiche e compatte le parti della canzone deputate all’introduzione, strofa e pre-chorus; il ritornello è invece un’esplosione melodica riuscitissima per intensità e profondità. Con il sesto brano del platter, Invisible Wounds (Dark Bodies), il tono si addolcisce e si calma verso un groove introspettivo e profondo, aiutato in ciò dal cantato in clean di Burton, che interpreta in maniera calda e melodica il bellissimo ritornello, ammantato da ariose parti di tastiera. Immancabile, il durissimo break centrale, dove il gruppo si rammenta della propria matrice Death.

Partenza al fulmicotone con Acres of Skin, dove Raymond Herrera sciorina, nell’introduzione, un blast-beat da antologia. A seguire, la strofa, potente e violenta, cantata con veemenza da Burton, così come il pre-chorus e chorus, assolutamente amelodici e dal groove meccanico così tanto tipico da parte della band. Break centrale invece dal tono improvvisamente ed imprevedibilmente leggero ed armonico, in completa antitesi con quanto elaborato precedentemente. Back the Fuck Up, ed arriva un incredibile groove rap, ammantato da toni angustianti e poco rassicuranti per l’immaginario futuro dell’Umanità che la band concepisce ed immagina. Penultimo brano del platter, Byte Block, e nuovamente sono corpose le poco rassicuranti atmosfere elettroniche, sulle quali si innesta un poderoso riff di Dino. Dopo una strofa relativamente lenta, improvvisamente il ritmo accelera nel pre-chorus, per poi concludere la quadratura del pezzo con un ritornello cantato su toni altissimi da Burton. Angosciante, nuovamente, il break centrale, giocato sul basso e sintetizzatori. A chiudere l’album (nella sua edizione standard, senza cioè bonus-track), Hurt Conveyor dalla partenza rapida e violentissima, per placarsi però nella strofa, cantata da Burton su una base prodotta dal basso di Christian Olde Wolbers. Molto presenti ed invasivi, nella canzone, gli effetti elettronici, che tuttavia si dipana in coerenza con lo stile massiccio e marcatamente meccanico del gruppo. Nuovamente poco presente la melodia nelle parti deputate al ritornello, dissonante e di difficile digestione da parte dell’ascoltatore.

In definitiva, l’album mantiene l’altissimo standard qualitativo delle due produzioni precedenti (Demanufacture ed Obsolete) e, pur presentando elementi di originalità dovuti alla descritta presenza di generose parti elettroniche al sintetizzatore, non viene intaccata minimamente la sistematica peculiarità del gruppo deputata alla potenza ed alla scrittura di canzoni varie, articolate e spesso presentanti elementi di melodicità/amelodicità in contrapposizione. Manca solo, a parere dello scrivente, una canzone che caratterizzi compiutamente l’album. Linchpin, che sarebbe deputata a ciò, è monca di quel pizzico di anima che avrebbe elevato l’album ancora più in alto.

Daniele D’Adamo

Tracklist:

1.What Will Become?
2.Damaged
3.Digimortal
4.No One
5.Linchpin
6.Invisible Wounds (Dark Bodies)
7.Acres of Skin
8.Back the Fuck Up
9.Byte Block
10.Hurt Conveyor

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