Recensione: Dingir

Di Tiziano Marasco - 14 Marzo 2013 - 21:16
Dingir
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Anno: 2013
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78

Rings of Saturn? Aliens! Così recita uno dei rarissimi demotivational dedicati al technical death metal (e non al prossimo album dei Necrophagist). Se poi oggetto di tale demotivational si riferisce a un gruppo di ragazzi americani che sono appena giunti al secondo disco, nasce spontaneo un certo interesse per questa band, che già di suo ha un monicker colmo di fascino. Anche perché da successive ricerche sempre in rete risulta innegabile che i Rings of Saturn, come si suol dire, spaccano. E spaccano innanzitutto sia la critica che il pubblico, divisi tra chi li incorona come geni totali e chi li ritiene un fenomeno da baraccone che propina una sequela interminabile di cliché e riff condita da una iperproduzione ai limiti del kitsch.
Ma andiamo con ordine.
Si era detto di un secondo album, al secolo Dingir. Termine preso dalla scrittura cuneiforme, Dingir è una parola che indica la divinità o il cielo stesso, creando così un filo tematico con gli anelli di Saturno, nonché testimonianza del fatto che i Rings of Saturn non sono degli sprovveduti almeno per quanto riguarda la dimensione filologico-umanistica. Ma qui si tratta di musica e non di mezzelune fertili, quindi passiamo al disco nello specifico.

Veniamo dunque al disco, che si rivela una serie ininterrotta di riff velocissimi, accelerazioni e growl assolutamente indecifrabili dall’inizio sin quasi alla fine. L’ascoltatore viene sballottato di qua e di là in un ciclone sonoro continuo ed incessante, sicché, non fosse per i proverbiali tre secondi di silenzio, sarebbe assai difficile distinguere le varie tracce. Inutile dunque anche fare un’analisi track-by-track, perché qui veramente non ci si raccapezzola in tanta varietà e tanta velocità. Ad ogni modo, il sound è quello del deathcore classico, solo portato all’eccesso e condotto  in territori quasi grind. Altro elemento degno di nota è il nuovo cantante Ian Bearer, pienamente padrone del mezzo e in grado di svariare da growl cavernosi a ululati da pipistrello in pochi secondi; il che crea un po’ di dubbiosa, supponente aspettativa in vista di possibili live.

In ogni caso, col procedere del disco, ma soprattutto degli ascolti, si inizia a trovare qualche minuscolo appiglio, una vaga forma di orientamento. Ci si accorge che, intorno alla sesta traccia, qualche scala si ripete un paio di volte, così come certi riff lamellari e shred svolazzanti. Poi si arriva a Fruitless existence e Immaculate order, rispettivamente traccia 8 e 9, due brani che effettivamente assurgono all’attenzione tanto da meritare una citazione diretta. Qui infatti si mescola, alla tradizionale truculenza ferina, influenze inaspettatamente quanto marcatamente prog. Un po’ come se i già citati Nechrophagist, con produzione pompatissima, avessero tentato un’improbabile quanto riuscita collaborazione con il chitarrista dei Rush. A chiudere viene la strumentale Utopia, dove la componente prog diventa ancor più presente e dà vita ad una composizione molto tranquilla, almeno in relazione a quanto sentito nella mezz’ora precedente.

Tirando le difficili somme, possiamo dire che Dingir è un lavoro interessante, anche se i Rings of Saturn hanno la sfortuna di essere stati preceduti, sotto vari aspetti, dai The Locust. In secondo luogo sorge un certo rimpianto, poichè se tutto il disco fosse stato come le tracce conclusive, ci troveremo davanti a qualcosa di assolutamente incredibile, attoniti testimoni della nascita di un nuovo genere che potremmo definire progressive grindcore – e dico tutto!

D’altro canto è innegabile che, così com’è, l’album risulta costruito in modo curiosamente solido: grazie ai ripetuti ascolti balza all’orecchio il fatto che questo disco sia concepito come una sorta di ascesa verso il cielo, che parte da un totale inferno sonoro e pian piano pone sparuti assiomi tecnici, sui quali vengono infine costruite delle composizioni ragionate senza però rinnegare quanto si è sentito in precedenza. Questa struttura però presenta una piccola pecca poiché inizia a manifestarsi solo dalla sesta traccia, mentre le prime cinque sono uno sciorinare riff e shreddate folli senza la minima soluzione di continuità. Testimonianza del fatto che questi americani potrebbero davvero essere dei fottuti geni del male, a patto di saper dare ordine alla loro furia creativa nei frangenti più trucidi e costruire il loro viaggio con intelligenza ancora maggiore. Per ora ci accontentiamo di Dingir e si sa che chi s’accontenta gode.

Tiziano “Vlkodlak” Marasco

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