Recensione: Do or Die

Di Davide Pontani - 12 Marzo 2016 - 10:11
Do or Die
Band: Viking
Etichetta:
Genere: Thrash 
Anno: 1988
Nazione:
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78

Trae in inganno l’artwork del disco, come anche moniker e titoli dei brani. Tutto farebbe pensare ad un gruppo epic proveniente dalla Scandinavia. Niente di più lontano dalla realtà: i Viking provengono dalla California e suonano un feroce thrash metal al fulmicotone.

Il gruppo nasce nel 1985 con il nome Tracer. Dureranno il tempo di un demo, prima di diventare definitivamente Viking e pubblicare nel 1986 un nuovo demo che farà da apripista all’album di debutto “Do or die”, che vedrà la luce due anni dopo.

E’ il 1988, il thrash metal è un genere ormi affermato, che si è ritagliato un suo spazio ben definito nel panorama del rock duro, manifestando uno stile e delle caratteristiche ormai ampiamente riconoscibili. Come per tutti i generi musicali che raggiungono il loro apice, anche la scena thrash metal incomincia ad affollarsi di gruppi che sono spesso dei semplici comprimari e in alcuni casi delle vere e proprie meteore. I Viking sono tra questi. Considerati dei cloni e penalizzati da un esordio in ritardo di almeno un paio d’anni rispetto ai gruppi più noti, cadranno quasi subito nel dimenticatoio, al punto che “Do or die” non verrà rimasterizzato su cd fino al 2013. Ma questo non vuol dire che ci troviamo di fronte ad un lavoro mediocre, anzi.

“Do or die” è un disco che non fa prigionieri, sin dall’opener è subito chiaro quali sono i punti di riferimento dei quattro vichinghi: la furia cieca dei Kreator di “Pleasure to kill”, la violenza dei Dark Angel di “Darkness Descends” ed una spiccata influenza slayeriana, a volte ai limiti del plagio (l’attacco di “Bring from within” è praticamente identico a quello di “Jesus saves”). Siamo di fronte ad un thrash metal d’assalto caratterizzato da un riffing tesissimo e da una ritmica forsennata.

I primi tre brani si susseguono compatti, senza lasciare un attimo di respiro all’ascoltatore, che viene investito dalla violenza sonora sprigionata dal quartetto californiano. La breve apertura strumentale di “Prelude” è solo l’illusione di una tregua, perché con “Scavenger” si ricomincia subito a spingere il piede sull’acceleratore.

I ritmi rallentano, questa volta veramente, con la successiva “Valhalla”, pezzo più cadenzato e dall’attitudine mosh che chiude la prima parte del disco.

Nella seconda parte l’assalto all’arma bianca ricomincia. Spiccano “Berserker”, altro pezzo d’impatto, caratterizzato da un delirante riff d’apertura e “Killer unleashed”, arricchita da una sinistra apertura melodica che fa da preludio al brano.

In conclusione stiamo parlando di un gruppo derivativo e che non inventa nulla di nuovo, ma che riesce comunque a realizzare un lavoro che funziona. E’ un disco intenso, tirato  e che non presenta cali di tensione, che farà la gioia degli amanti del thrash più estremo e senza compromessi, ma che potrebbe stancare presto coloro che sono alla ricerca di  un minimo di varietà compositiva, risultando ripetitivo e monocorde. La tecnica non è ancora perfetta, e questo si avverte soprattutto negli assoli, a volte poco personali e troppo fossilizzati sul modello slayeriano, ma ciò non va ad intaccare la potenza del disco nel suo complesso. La pecca più evidente è la produzione, che non rende giustizia all’album e spesso rende caotico il tutto.

Dopo “Do or die” i Viking pubblicheranno un secondo album, “Man of straw”, prima di sciogliersi e riformarsi in tempi recenti. Più che per la qualità, il disco sarà ricordato per la riscrittura dei testi in fase di registrazione a causa della conversione al cristianesimo del leader del gruppo Ron Eriksen.

Davide Pontani

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