Recensione: Dodecahedron

Di Damiano Fiamin - 26 Marzo 2012 - 0:00
Dodecahedron
Band: Dodecahedron
Etichetta:
Genere:
Anno: 2012
Nazione:
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63

Mulini a vento, zoccoli e tulipani? Non direi; nonostante sia un paese piuttosto piccolo, l’Olanda può annoverare numerosi prodotti di esportazione di rilievo per quanto riguarda la scena metal: pensiamo, tanto per fare qualche esempio, a grandi nomi come Ayreon, Sinister e Within Temptation. Forti di questo retaggio culturale, tentano l’assalto alle classifiche i Dodecahedron, giovane band votata a un black metal che, fino a qualche anno fa, si sarebbe definito sperimentale, caratterizzato da sonorità aggressive e inserti più rarefatti, prendendo a modello gruppi come Altar of Plagues o A Forest of Stars. Questo debutto si presenta con una copertina scabra ma intrigante, una cupa e grigia geometria minimalista, un gorgo poligonale che invita a lasciarci risucchiare e a immergerci nelle atmosfere dell’album. Creiamo un’atmosfera conciliante, lasciamo che penombra e tranquillità riempiano la nostra stanza e accendiamo lo stereo…

Sporco e brutale, così si offre alle nostre orecchie Allfather, il brano che apre il disco. Su un’intelaiatura di base costituita da un black metal di stampo classico, con batteria lanciatissima e chitarre distorte, vengono proposti degli esperimenti musicali meno canonici, dissonanti e acidi, che vanno a porsi lungo la struttura fondamentale, in un amalgama feroce che, però, si perde strada facendo. I, Chronocrator accelera con violenza, precipitandoci in un gorgo potente, allucinato e contorto. Ancora una volta, il quadro complessivo è massiccio, ma non particolarmente brillante. Le discordanze sonore, che in teoria dovrebbero fornire al brano un sapore innovativo, danno la sensazione di essere state gettate qua e là, tanto per provare. L’alienante parte mediana cresce e agonizza più volte prima di esplodere nuovamente in una serie di bassi profondi e rullanti scatenati, in una selvaggia conclusione che sfuma appena prima di catapultarci nell’oscura e malevola Vanitas. Cupa e soffocante, si sviluppa lentamente, spandendosi in maniera viscosa dalle casse del nostro stereo, inchiodando l’ascoltatore alla sedia e lasciandogli una sensazione di disagio che non accenna a sparire rapidamente. Un brano lungo e pesante, impegnativo da affrontare ma, sebbene un po’ ripetitivo, decisamente appagante. Descending Jacob’s Ladder è semplicemente un intermezzo in cui voce ed effetti sonori concorrono per creare un’atmosfera da casa stregata.
Passiamo oltre, dunque, ed entriamo nel pezzo che costituisce la prima parte della trilogia finale del disco: View from Hverfell I: Head above the Heavens ha un incipit aggressivo che si disperde lentamente, entrando in un regno di rumor bianco e suoni apocalittici che trovano compimento nel passaggio successivo, View from Hverfell II: Inside Omnipotent Chaos, aggressivo, veloce e brutale, si lancia all’assalto senza fermarsi davanti a niente e nessuno, trascinando qualunque velleità di sperimentazione in una feroce distruzione sonica. Probabilmente, il brano più onesto dell’intera produzione. Anche in questo caso, assistiamo a un miscuglio di momenti rabbiosi e rarefazioni funeree; è forse la prima volta, però, che i due elementi si amalgamano in maniera coerente. Scivoliamo infine verso l’epilogo, View from Hverfell III: A Traveller of the Seed of the Earth, pezzo classico, costruito su una base a geometria variabile e sfaccettata che ripropone l’eterna antinomia veloce/lento, calcando forse un po’ troppo nella contrapposizione che diventa, in alcuni tratti, quasi schizofrenica. La cavalcata conclusiva si muove sullo stesso binario, fuoriuscendo rabbiosa e incontrollata e frenando bruscamente, prima di giungere all’arresto finale.

Riemergiamo e ricomponiamo le idee; quello degli olandesi è un debutto claudicante, un disco dalla duplice anima, un binomio perfettamente esemplificato in corso d’opera da un insistente confronto tra tesi e antitesi che, però, stenta a sfociare in una sintesi chiara.  Da un lato, abbiamo dei musicisti più che competenti e un’ottima produzione che li affianca e li valorizza. Dall’altro, però, c’è una proposta musicale discontinua: i brani sembrano un po’ stiracchiati e la commistione tra sonorità aggressive e armonie d’atmosfera è, a volte, forzata. Certo, i Dodecahedron non hanno sicuramente velleità avanguardistiche; proseguendo lungo questa strada, però, non riusciranno a discostarsi in maniera rilevante dalla miriade di gruppi e gruppuscoli simili tra loro e saranno condannati al dimenticatoio. Ci sono alcuni episodi felici che mi spingono a consigliare questo disco a tutti gli amanti del genere, ma non sono sufficienti per suggerire l’acquisto a una cerchia più larga di ascoltatori. In ogni caso, un gruppo di cui sarà interessante valutare l’evoluzione.

Damiano “kewlar” Fiamin

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Tracce:
1. Allfather
2. I, Chronocrator
3. Vanitas
4. Descending Jacob’s Ladder
5. View from Hverfell I: Head above the Heavens
6. View from Hverfell II: Inside Omnipotent Chaos
7. View from Hverfell III: A Traveller of the Seed of the Earth

Formazione
M. Eikenaar: voce
M. Nienhuis: chitarra
J. Bonis: chitarra, sintetizzatore
Y. Terwisscha van Scheltinga: basso
J. Barendregt: batteria
 

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