Recensione: Dog Eat Dog

Di Daniele D'Adamo - 22 Settembre 2007 - 0:00
Dog Eat Dog
Band: Warrant
Etichetta:
Genere:
Anno: 1992
Nazione:
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83

I Warrant, assurti a notorietà mondiale grazie all’album ”Cherry Pie” (Columbia Records, 1990), sono una band americana fondata nel 1984 da Erik Turner (lead guitars) & Jerry Dixon (bass), con l’originale formazione composta inoltre da Adam Shore (vocals), Josh Cohen (lead guitars) e Mad Max Asher (drums).
Di seguito al masterpiece sopra menzionato, nel 1992 viene dato alle stampe ”Dog Eat Dog”, prodotto dal Michael Wagener, presidente della Double Trouble Production Inc., ormai leggendaria casa di produzione che ha curato le realizzazioni di centinaia di album nel Mondo.
La formazione con la quale viene inciso l’album oggetto della presente recensione è composta da Jani Lane (Vocals/Acoustics), Jerry Dixon (Bass), Joey Allen (Rhythms/Leads), Erik Turner (Rhythms) e Steven Sweet (Drums/Vocals), coadiuvati da Scott Humprey (Keyboards), Ron Feldman e Scott Warren (Grand Piano).

Cercare di bissare il precedente successo di Cherry Pie, non deve esser stato facile, per Jane Lane (songwriter di tutti i pezzi del platter) e compagni, soprattutto per un genere, l’Hard Rock melodico, che sembrava aver dato tutto o quasi, a livello artistico, all’inizio del nuovo decennio post-eighties..
Fatta questa premessa, l’opener Machine Gun, dal riff tagliente e metallico, mostra subito un piglio decisamente riottoso del sound, quasi sconfinante nell’Heavy Metal, con poche concessioni a sdolcinature e melodie affettate. Il refrain è ricco, corposo, quasi dissonante, i cori sono aggressivi, i soli di chitarra decisi e marcati.
Con The Hole In My Wall, il groove assume un andamento autoritario, grazie all’inizio granitico, cristallino e ritmato. Il ritornello, invece, torna ad essere melodico, realizzando in tal modo, un riuscito dualismo armonico sia col ritmo stesso, sia con i soli di chitarra, dissonanti e dai suoni artificiali.
Poi, è il turno di April 2031, terzo brano del platter. La canzone è decisamente melodica, moderna, ammantata da un leggero velo di malinconia. Molto particolare la strofa, dal cantato filtrato, melodicissimo, mentre un dolcissimo pre-chorus è il preludio ad un refrain deciso e marcato.
Una tenera voce di bambino, introduce Andy Warhol Was Right, riuscitissimo connubio fra cromata potenza e trasparente melodia. Dolce e struggente all’inizio, la canzone sale di intensità – accompagnata da ariose orchestrazioni – sino ad assurgere a vette di alto lirismo ed armonia, grazie alle laceranti e melodiche note della chitarra solista. In seguito il pezzo (a parere di chi scrive il migliore per intensità) si spegne, sino a morire dolcemente fra scricchiolii di porte e sibili di vento, per lasciare il posto a Bonfire.
La song, dal carattere alquanto più tradizionale, è in sempre in linea con il tono pieno e corposo del lavoro, ed è sottolineata da un ritornello ruffiano, adeguato allo stile americaneggiante del gruppo, e da un riuscito, solo di chitarra, dotato di gran personalità.
La sesta canzone del disco è The Pitter Bill, prima, vera, ballata dell’album. Classica nella costruzione musicale, la traccia è comunque sempre dotata di “spina dorsale”, grazie all’impeccabile produzione di Michael Wagener. Accattivante e facilmente memorizzabile il refrain, inframmezzato nella parte centrale da intarsi corali originali e sinfonici. Molto riuscito, come sempre, il solo di Joey Allen, chitarrista raffinato e dotato di gran buon gusto.
Hollywood (So Far, So Good) è la tradizionale canzone melodica da ascoltare in macchina mentre si percorre un’immaginaria e sognante Coast-to-Coast: suadenti melodie si accavallano a cori spensierati ed allegri, accompagnate anche dal suono della chitarra acustica.
Con ”All My Bridges Are Burning” arriva quindi l’hit da classifica.
Sostenuta da un ritmo incalzante, la canzone già dalla strofa melodica (sottolineata dal suono delle nacchere spagnole) dimostra il suo carattere e la sua personalità, cromata e cristallina. Un brano da ricordare e cantare insieme al gruppo, semplice e vincente come un singolo da Hit Parade deve essere.Anche qui, immancabile la marcatura dorata della chitarra di Allen.
Con ”Quicksand”, si ritorna ad un tono riflessivo ed introspettivo culminante, nel pre-chorus e nel chorus, in una armonia sentita e profonda, coinvolgente e drammatica, come sempre sostenuta dal lavoro diamantato della chitarra solista.
Un dolce accordo di chitarra classica introduce ”Let It Rain”, decima episodio dell’album, e seconda ballata strappalacrime dello stesso. Molto sentita ed appassionata, l’interpretazione vocale di Lane, vera “anima e corpo” del pezzo, avvolto da cori femminili quasi di estrazione
Gospel.
A far da contrasto alle leggere melodie appena trascorse di “Let It Rain”, arriva “Inside Out:”, veloce e violento esempio in doppia cassa di song dal carattere marcatamente Metal, dove Lane si scatena con un con un cantato aggressivo e potente, sostenuto da ritmica d’assalto e da riff roventi di chitarra elettrica.
Ultimo sussulto dell’album: “Sad Theresa”, terza ballata in scaletta. La partenza è caratterizzata da un’introduzione acustica, per poi svolgersi nell’abituale – ma non per questo di basso profilo – stile elettrico, pieno ed energico dell’act americano, sempre molto melodico e coinvolgente.

Coinvolgente come tutto il lavoro, che si mantiene su standard altissimi di composizione, esecuzione e produzione.
Tutte le canzoni, prese una ad una, sono dotate di personalità propria, pur non discostandosi dallo stile classico dell’Hard Rock melodico, cromato e brillante tipico della fine degli anni ’80.
Ad esser pignoli, forse, manca una vera hit da ricordare col passare degli anni, ma si tratta, tutto sommato, di un peccato veniale, dato l’alto valore complessivo dell’opera.

Daniele D’Adamo

Tracklist :

1 – Machine Gun
2 – The Hole In My Wall
3 – April 2031
4 – Andy Warhol Was Right
5 – Bonfire
6 – The Bitter Pill
7 – Hollywood (So Far, So Good)
8 – All My Bridges Are Burning
9 – Quicksand
10 – Let It Rain
11 – Inside Out
12 – Sad Theresa

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