Recensione: Dominion

Di Mattia Di Lorenzo - 20 Marzo 2007 - 0:00
Dominion
Band: Kamelot
Etichetta:
Genere:
Anno: 1997
Nazione:
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73

Recensire un album vecchio di dieci anni non è la stessa cosa che uno nuovo. In dieci anni un disco evolve, assume un ruolo nella storia della band, con la possibilità di diventare un classico. Si pensi ad “Images and Words” dei Dream Theater, o “The number of the Beast” dei Maiden, o, tra le sue luci e ombre, allo stesso “Black Album” dei Metallica… Essi sono tali soprattutto per ciò che rappresentano.
Ora, cosa rappresenta Dominion per i Kamelot? La risposta è semplice: assolutamente niente.
La band stessa ha voluto dimenticare le sue prime tre uscite, secondo un processo evidente già dall’uscita del primo live, Expedition, in cui era presente solo Call of the Sea da Eternity, e una nuova versione studio di We are not separate. Ed è inutile imputare questa scelta al drastico cambio di line-up allora avvenuto, dal momento che Roy Khan si dimostrò ampiamente all’altezza di tali canzoni… Se personalmente ritengo Eternity un lavoro ancora immaturo e non esente da forti pecche, e Siege Perilous un momento di transizione trascurabile, Dominion avrebbe sicuramente meritato miglior fortuna.
A questo punto è lecito chiedersi come trattare questo “non-classico”, dal momento che, se la qualità della musica proposta spingerebbe verso alti lidi, la storia lo relega in posizione marginale. Risultato della riflessione? Un voto più che discreto, che al momento dell’uscita, nel ‘97, avrebbe anche potuto essere molto buono.

Ma ora, iniziamo a parlarne sul serio.

Ciò che si nota rispetto a Eternity, è una maggiore semplicità nella costruzione delle canzoni, e, soprattutto, delle linee vocali più piane, che permettono di apprezzare veramente la voce di Vanderbilt, il quale nell’esordio talvolta sembrava più che altro divertirsi a emettere vagiti voluttuosi. Qui il limite del buon gusto non è mai oltrepassato, la maestosità suggerita dal titolo non arriva mai ad essere ampollosità e ridondanza.
Stupenda l’intro strumentale, che si presenta come una vera e propria ascensione verso il cielo, promesso e declamato in Heaven. Laddove ci si aspetterebbe un classico sfoggio di velocità e potenza, con tastiere mielose e riff serrati di chitarra, come in molte, troppe uscite degli ultimi tempi, qui si parte invece con un grezzo e incalzante ritmo di basso, che precede l’immediata entrata in scena della voce. La canzone è molto riuscita, anche se poco power, come d’altronde tutto il cd. Apro qui una piccola parentesi sull’etichetta che vedete apposta là sopra: effettivamente i primi due album dei Kamelot sono molto più heavy che power. Ma se è vero che un gruppo si identifica normalmente all’interno di una (e una soltanto) denominazione di genere, usando il “senno di poi” si può far rientrare nella categoria “power” anche questi primi due lavori, che lo sono solo in piccola parte.
Rise Again è un altro mid-tempo godibile, che si appoggia sulle rocciose fondamenta di basso e batteria. One day I’ll win è aperta invece dalle tastiere, che amplificano, qui e altrove, l’impressione di solennità che pervade Dominion. Ritengo la canzone una delle meno riuscite, a causa anche della frase-titolo ripetuta ossessivamente, troppe volte.
Più melodica e più nota We are not separate, grazie anche alla riedizione successiva cantata da Khan. Discostandomi dal giudizio corrente, in questo caso io ritengo migliore la versione di Vanderbilt. Khan, pur cantando bene, come sempre, sembra essersi affidato più all’imitazione che alla rielaborazione, in questo caso, soffocando la sua vocazione lirica ed espressiva per destreggiarsi in uno stile non suo. Vanderbilt, invece, su questi timbri è completamente a suo agio e l’interpretazione è eccellente.
Malinconica e sognante Birth of an Hero, semi-ballad di ottimo livello, che inaugura la svolta in senso più melodico della seconda parte dell’album, essendo sorretta maggiormente dai riff di chitarra e dalle tastiere.
Creation è un insolito brano strumentale, che si discosta dai canoni dei classici “instrumental”, eccellendo per bellezza e originalità.
Sin, in onore al titolo, è la canzone più torbida e cupa dell’album. La struttura è abbastanza intricata, la conclusione tronca desta una certa perplessità.
Sembra che col trascorrere del tempo i Kamelot si avvicinino sempre più ai canoni per cui noi oggi li conosciamo. Le prime canzoni, pur molto interessanti nella loro diversità, rispondono a un gusto più complesso ed elitario, rischiando di allontanare il “grande pubblico”. La chiusura di Dominion, a partire dalla strofa di Sin (in cui si toccano forse per la prima volta le sonorità future dei Kamelot – pensatela cantata da Khan e capirete…), presenta melodie più immediate e facili, anche se l’ispirazione è forse meno genuina, e si rifà direttamente a varie fonti, anche celebri.
Song of Roland è la miglior canzone dell’album. Evidente il richiamo (con variazioni) ad Ascention, l’introduzione: questo, destando l’attenzione dell’ascoltatore, porta ad identificare il brano come il centro virtuale dell’album. La canzone può essere divisa in tre parti: a una prima esposizione, sostenuta da accordi lenti di chitarra, segue, dopo la ripetizione del tema-riff iniziale, una zona più lenta, con chitarre acustiche che ricordano vagamente certe ballad dei Metallica. La terza parte incalza invece su ritmi tipicamente Maideniani, concludendo in sfumando.
Il disco si chiude poi con Crossing Two Rivers e Troubled Mind, che si distinguono per i ritornelli più “cantabili” dell’intero album.

Le maggiori note di merito di Dominion, grazie anche a una produzione molto più professionale dell’esordio, vanno al bassista Glen Barry e al batterista Richard Warner, che sono riusciti a dar vita a una struttura ritmica globale semplicemente perfetta. In particolare il basso assume nell’album una funzione preponderante e fondamentale, laddove in seguito tenderà a passare in secondo piano, letteralmente sommerso dall’imperversare di chitarre e tastiere.
In conclusione, non nascondendo comunque una mia personale predilezione per i lavori successivi della band, esprimo un certo rammarico per la morte di quest’album, che la band avrebbe dovuto considerare maggiormente, almeno nelle sue parti più ispirate e melodiche.

Tracklist:
1. Ascension
2. Heaven 
3. Rise Again 
4. One Day I’ll Win 
5. We Are Not Separate
6. Birth of a Hero
7. Creation
8. Sin
9. Song of Roland
10. Crossing Two Rivers
11. Troubled Mind

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