Recensione: Doom

Di Luca Trifilio - 8 Agosto 2009 - 0:00
Doom

La storia dei Job For A Cowboy è ormai nota a buona parte della frangia di ascoltatori di musica estrema, e rappresenta un interessante esempio di come si possano sfruttare al meglio le possibilità offerte da internet per diffondere il proprio prodotto, in questo caso la musica. Formatisi alla fine del 2003, quando i componenti avevano tra i 15 ed i 16 anni, questi ragazzi crearono un profilo su MySpace che ben presto divenne molto visitato, creando intorno alla band notevole interesse. Qualche tempo dopo, con l’uscita del loro EP autoprodotto Doom, di cui ci apprestiamo a discutere, il traffico sul profilo continuò a crescere, tanto da attirare l’attenzione dell’etichetta indipendente King Of The Monsters, che si occupò della distribuzione del disco. Grazie quindi a queste poche e semplici mosse, i ragazzi dell’Arizona si ritrovarono ad avere la possibilità di intraprendere addirittura un lungo tour da headliner che li portò anche al di fuori dei confini degli USA, rarità assoluta per un gruppo che all’attivo aveva un solo EP di 6 canzoni. L’ascesa vertiginosa della band culminò col contratto siglato con la Metal Blade, il cui primo passo fu quello di ripubblicare Doom distribuendolo su scala mondiale. L’edizione recensita è proprio quest’ultima, contenente una bonus track.

La domanda che chiunque potrebbe porsi a questo punto è: ok, hanno saputo farsi buona pubblicità e vendere bene il proprio nome, ma c’è anche sostanza dietro tutto questo marketing? La risposta è certamente positiva, soprattutto alla luce di quello che i Job For A Cowboy sono stati in grado di fare negli anni seguenti. Dopo un’intro marziale e cupa che cala nel mood soffocante e futuristico dell’album, tocca ad Entombment Of A Machine aprire le danze, e lo fa al meglio, rivelandosi essere una delle canzoni più riuscite, oltre ad avere il pregio di racchiudere tutto ciò che la band aveva da offrire all’epoca: brutal deathcore complesso e viscerale. I breakdown tipici del metalcore si fondono col riffing e le sfuriate del death metal, il tutto condito con vocals estreme che passano dal growl allo scream, passando per il cosiddetto “pig squeal”. Sorprende l’abilità dei nostri di realizzare canzoni di una certa varietà, composte da diversi riff e da strutture quanto più possibile differenziate, ed è qui che emerge inevitabilmente uno dei limiti di questo EP, ovvero il songwriting acerbo. Prova ne è un pezzo come Relinquished, che contiene al suo interno alcune delle idee migliori dell’intero disco ma che non ha una coesione che gli permetta di poter essere considerato un pezzo ben riuscito, a causa di alcune parti che sembrano incollate tra loro alla bell’e meglio. Peccato veniale, senza dubbio, soprattutto se subito dopo arriva una bordata sonica come Knee Deep, brano micidiale e che ottiene la palma di composizione più matura del lotto. Come si diceva qualche riga fa, è massiccia la presenza di breakdown, di cui la band fa un uso forse addirittura esagerato, sebbene a volte ne risultino dei passaggi potentissimi come ad esempio nel rallentamento finale di The Rising Tide. Qualche parola va spesa anche per la bonus track Entities: composta qualche tempo dopo gli altri pezzi del disco, presenta al suo interno qualche avvisaglia della strada che la band avrebbe preso col primo full-length Genesis, a partire da dinamiche più strettamente death metal, soprattutto nella parte iniziale, e proseguendo per accenni di melodia e di assoli che danno un maggior respiro al brano rispetto a tutti quelli proposti in precedenza.

Una volta scacciato il sospetto che non ci fosse nulla dietro la macchina pubblicitaria messa in moto dai Job For A Cowboy, ciò che resta è un EP valido, ben suonato, prodotto dignitosamente e che ha contribuito a dar vita ad un genere, quello del deathcore, portato in auge da gruppi quali i The Red Chord o i Despised Icon. La mole di idee che la band riversa tra questi solchi è notevole, frutto di un songwriting che, come si è già detto, è indubbiamente ancora acerbo, tanto da non permettere ai nostri di strutturare al meglio i brani con le giuste legature ed i giusti cambi, ma è anche viscerale, dando l’idea di un gruppo di ragazzini entusiasti e vogliosi di buttar dentro i propri brani tutti i riff validi che erano riusciti a comporre (e sono tanti, sparsi in questi 27 minuti). E’ altresì ovvio che il confronto coi lavori successivi sia impietoso, ma Doom rimane tuttora un prodotto degno di attenzione, sebbene sia bene sottolineare che ormai non rappresenta più la proposta musicale della band, evolutasi in un’altra direzione.

Luca ‘Nattefrost’ Trifilio

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Tracklist:

01. Catharsis For The Buried 00:59
02. Entombment Of A Machine 04:09
03. Relinquished 04:52
04. Knee Deep 04:31
05. Suspended By The Throat 04:49
06. The Rising Tide 04:17
07. Entities (bonus track) 04:10

Line-up:

Jonny Davy – voce
Andrew Arcurio – chitarra
Ravi Bhadriraju – chitarra
Brent Riggs – basso
Elliot Sellers – batteria