Recensione: Dot

Di Tiziano Marasco - 8 Agosto 2016 - 11:00
Dot
Band: Karmakanic
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2016
Nazione:
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78

I Karmakanic non sono contrassegnati da uscite particolarmente vicine tra loro sul piano temporale, né vengono particolarmente pompati dalla loro label, la Inside Out, al momento della pubblicazione di un nuovo album. È forse così deve essere, dato che la formazione è essenzialmente un side project per Jonas Reingold (The Flower Kings), per Göran Edman invece è solo una delle tante band (attualmente sembra particolarmente intrippato dai Signum Regis). Di fatto però, le uscite dei Karma generano sempre, nel panorama prog, una piccola scossa tellurica: pur non inventando niente, in effetti questo pugno di svedesi si è sempre mostrato in grado di regalare album di notevole livello e soprattutto in grado di combinare in maniera incredibilmente naturale appeal e tecnica, composizioni di 10 minuti e melodie da radio. 

Il vertice lo si era raggiunto quattro anni fa con un album che, a tutta prima, non aveva nulla di eclatante. Ma che di fatto era meraviglioso, provocava dipendenza e assuefazione senza mai stancare o risultare nocivo – “In a perfect World”. Sebbene gli scandinavi non abbiano mai sbagliato un colpo, quell’album era qualcosa di unico, non inventava quasi nulla, ma lo faceva benissimo. 

Ma non siamo qui per guardare al passato recente, siamo qui per scrivere di “Dot“, nuovo parto di casa Reingold, uscito lo scorso 22 luglio nell’indifferenza più o meno generale. Partiamo ora da tre semplici assiomi:

  1. I Karmakanic non sono particolarmente innovativi, in termini di neoprog
  2. Nonostante il punto 1), i Karmakanic non hanno mai fatto due dischi simili
  3. Nonostante i punti 1) e 2) il sound Karmakanic è sempre riconoscibile e non somiglia a nessun altro

Vista la combinazione di questi tre elementi, risulterà ancora più chiaro (ce ne fosse bisogno), che gli artisti qui convenuti non sono esattamente dei novellini, allo stesso tempo è anche chiaro che la loro creatura non è una trovata da musicisti annoiati che ingannano un po’ il tempo tra virtuosismi onanistici e strutture collaudate alla ricerca dell’easy money.

Il che paga. Dot, nuovo album dei nostri, conferma i tre assiomi citati sopra. Si snoda con una struttura piuttosto atipica per un disco prog, con un’ouverture da un minuto seguite dalle supersuite (da 23 e 11 minuti), in coda vengono i cosiddetti brani “semplici”, quelli da 5-6 minuti. Non proprio il massimo per assimilare un disco che potremmo definire “Canterburiano”.

Ça veut dire?

Per come ho sempre concepito il termine io, si tratta di una discreta profusione di flauti e tastierine bucoliche, che danno alle composizioni un andamento placido ed atmosfere sospese. Capirete ora che fare una suite di 20 minuti di questo tipo può risultare fatale – alle gonadi dell’ascoltatore per lo meno. In questo caso tuttavia la scampiamo più che bene, “God The Universe And Everything Else No One Really Cares About Part. 1”, fatti salvi alcuni momenti morti, si destreggia tra melodie acqua e sapone sta un po’ a farsi apprezzare, in tutta la sua sobria semplicità, ma risulta un pezzo davvero buono.

Ottimo pezzo anche “Steer by the stars“, canzone viva e briosa che avrebbe potuto essere facilmente inserita in “In a perfect World”. Il resto rimane più che buono, pare però un po’ sottotono rispetto a queste due composizioni, ma anche rispetto ad altri album. Manca da un lato l’esplosività tecnica di “Entering the Spectra”, dall’altro il vivace brio del pluridecorato ultimo album che in questa sede abbiamo menzionato diverse volte.

Ciò detto, un po’ di amaro in bocca non può rovinare l’ennesima ottima prova degli svedesi, che regalano come al solito un’ora di ottimo prog – o se preferite, mezz’ora di prog ottimo e venti minuti di prog più che discreto. E in ogni caso, “Dot” sembra essere, dopo “Affinity” degli Haken, la miglior uscita Inside Out di questo 2016.

 

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