Recensione: Double Vision

Di Roberto Gelmi - 15 Maggio 2018 - 10:00
Double Vision
Band: Arena
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2018
Nazione:
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77

Nono studio album (in vent’anni abbondanti di carriera) per il supergruppo inglese Arena, che vede in line-up musicisti acclamati della scena neo-prog come Clive Nolan (Pendragon, Shadowland) e John Mitchell (It Bites, Frost, Kino, The Urbane, Lonely Robot). Dopo il discreto The Unquiet Sky, questa volta la loro discografia si arricchisce di un’uscita dall’artwork (opera di João Martins) che definire di cattivo gusto sarebbe riduttivo. Evidentemente l’estetica del brutto è l’ultimo appiglio per rendere visibile un prodotto nel mare magnum del mercato globale… Per il resto tutto nella norma, la scaletta è corta e non manca una suite finale: ci aspettiamo, dunque, un album in tipico stile Arena, tra potenza e psichedelia. Immergiamoci nei sette pezzi che compongono il platter.
L’opener “Zhivago Wolf” nella prima parte è sorniona e atmosferica, sembra un crescendo che non arrivi a un climax risolutivo, ma negli ultimi 120 secondi gli Arena schiacciano l’acceleratore e ritroviamo il loro sound dalle venature hard rock. In sostanza un avvio in chiaroscuro, ma è presto per essere insoddisfatti di Double Vision, siamo solo all’inizio del viaggio. La voce caratteristica di Paul Manzi (in line-up dal 2010) ci guida nei meandri di “The Mirror Lies”, pezzo desultorio, con ritmiche quadrate e arrangiamenti cangianti, con aggiunte acustiche, i synth fatati di Nolan e ricerca melodica costante (una curiosità, il main riff sembra quello di The Time of the Oath degli Helloween!). Vengono in mente i connazionali Threshold ascoltando la seguente “Scars”: Mitchell è sugli scudi nell’assolo centrale e la song si rivela una pseudo-ballad dal refrain catchy al punto giusto. Prima della suite finale, ci sono tre brani che coprono il secondo quarto d’ora dell’album. “Paradise Of Thieves” merita la palma del miglior ritornello in scaletta, con i vocalizzi altissimi e insistiti di Manzi e anche Mick Pointer ci mette del suo al rullante. Avvio scenografico, invece, per “Red Eyes”, primi istanti soffusi e poi l’organo di Nolan a imporsi con fare magniloquente. La forma canzone è come al solito circolare, ma la sezione solistica è un nuovo centro, gli Arena non sbagliano un colpo. Vera ballad del full-length, “Poisoned” strappa più di un consenso, per il suo tono dimesso ma struggente. La voce di Manzi non è quella di MacDermott o di Fish, ma riesce comunque a trasmettere emozioni, perché pulita e incisiva.
Ultimo tassello del mosaico è “The Legend Of Elijah Shade”, venti minuti di progressive d’antan divisi in sezioni raccordate in modo notevole, a voi scoprirne i testi e la storia celatavi. Il break alla fine del quarto minuto è toccante, nel prosieguo si respira aria di casa primi Marillion, mentre nella ripresa rock è difficile trattenersi da un headbanging, pur contenuto. La suite sfuma e risorge più e più volte, è questo il bello della musica progressive. Arrivati a metà brano tutto può ancora succedere: l’intricata sezione strumentale al minuto quindicesimo, ad esempio, non sfigura di fronte agli arzigogolati passaggi manierati di Octavarium (opera dei Dream Theater del 2005), ma è d’applausi anche il momento che Nolan si ritaglia all’organo con le sue tinte gotiche e i momenti finali della suite, che più anglosassoni non si può.

Ascoltare gli Arena è immergersi in un tunnel sonoro che trasporta l’ascoltatore in un mondo parallelo fatto di alternanze umorali, tra parentesi in pianissimo e picchi hard rock. I loro album vanno ascoltati senza soluzione di continuità, lasciandosi irretire dalla magia delle sette note e dalla maestria tecnica dei musicisti chiamati in causa. Non si può parlare di neo-prog. sperimentale e ambizioso, ma di buona musica, ben prodotta, che nella sua prevedibile imprevedibilità ci fa sentire ancora una volta una band in buono stato di forma e capace d’inventare trame sonore suggestive.

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

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