Recensione: Draconian Times

Di Francesco "Caleb" Papaleo - 24 Marzo 2003 - 0:00
Draconian Times
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Anno: 1995
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85

Recensire quest’album non è facile. Non lo è certamente di più se si pensa che è stato realizzato da una band come i Paradise Lost, ossia uno dei pochi gruppi inglesi in circolazione che ovunque tastino, qualsiasi cosa esprimono, lo fanno sempre con quella malinconia di fondo che ne costituisce la spina dorsale di tutta la produzione e che fa di Holmes e compagnia una componente essenziale di quel trittico prettamente britannico composto da My Dying Bride ed Anathema, oltre che ai nostri, che riescono a far trasparire, in maniera magnifica, tutto il disagio, il dolore, la frustrazione e la rabbia di esistere. Se i My Dying Bride rappresentano l’intimismo intellettualoide tragico e suicida, gli Anathema probabilmente rappresentano il lato evasivo della sofferenza, persa tra psichedeliche incursioni in suoni che ricordano molto gli anni settanta, Black Sabbath e Pink Floyd su tutti. I Paradise Lost invece, rappresentano uno spostamento d’era. Dalle tragedie Sheaksperiane e mutevolmente poetiche sulla scorta di un Byron impazzito, quali i Bride rappresentano, ci si sposta ad un disagio permanentemente relegato all’intimo cosmico degli Anathema, fino al dolore truce e reale, alla sofferenza cupa ma che tutti riconosciamo dei Paradise Lost.

Questo “Draconian Times” già dal titolo rappresenta uno squarcio immaginifico ma che ha le sue basi certamente nell’acutezza della visione reale delle cose. Visione che è percepita come vuoto o come castrazione intellettuale (vedasi religione cristiana e similari), ma non è solo questo. La stessa impressione che si ha ascoltando le prime note di “Enchantment” è quella di trovarsi nella situazione tragica della palese apparizione della morte nella vita. I tasti del piano che costituiscono l’intro al brano lo rendono di una tristezza e di una malinconia insopportabile, il corpo della canzone è lento e magistrale, suonato in maniera ineccepibile, cadenzato ed architettato proprio perchè possa mettere a disagio l’ascoltatore. Il secondo brano è invece “Hallowed Land”. Ancora pianoforte, ma stavolta il ritmo è più dinamico e si spinge tra ritornello accennato e riff si chitarra percettibilmente caustici. Si prosegue con “The Last Time” (che rappresenta anche il primo singolo dell’album), ancora più veloce e spinta, con la voce di Holmes quantomai graffiante e certamente espressiva come non mai, con il semplice ritornello volutamente fuori dalle righe, che ribadisce in maniera martellante sempre le solite parole…Hearts Beating, Hearts Beating…Si arriva all’episodio a mio parere migliore dell’album, ossia alla tanto criticata “Forever Failure” (il secondo singolo pubblicato). Il titolo già la dice lunga, le polemiche divampano quando si sente la voce di Charles Manson prima dell’attacco del primo riff di chitarra (per chi non lo sappia Charles Manson è stato un noto personaggio americano che uccisse la prima moglie di Roman Polansky, che a quel tempo era anche incinta, ed oltretutto fu anche protagonista di una fosca storia di sacrifici umani a satana). Il brano si muove su di una tragicità che trasuda nota su nota, il cantato urlato e disperato non fa che aggravare il tono cupo, pesante come un macigno dell’intero brano che, oltre tutto, è eseguito in una maniera ineccepibile e con arpeggi centrali azzeccatissimi, oltre che alla solita lentezza che contraddistingueva il genere dei Lost fino a qualche tempo fa… Dopo la tragedia, uno spiraglio di luce, anzi…di rabbia. Si perchè è la rabbia a costituire la colonna portante del brano successivo, ossia “Once Solemn”. I Lost non hanno dimenticato come si compone una canzone spinta, urlata, ben fatta e senza fronzoli. Certamente colpisce dritto dove più fa male, ed è bellissimo ascoltarla a volume esagerato in una stanza chiusa, dove l’acustica rimbomba.

Si prosegue con “ShadowKings”, altro capitolo, altra tragedia, ancora arpeggi cupi, melodie rallentate, voci per metà distorte e per metà urlate, sentimenti sommessi. “Elusive Cure” non cambia di molto il registro dell’opera, se non perchè si differenzi dalla precedente tra i picchi di alti e bassi che si percepiscono nella voce del cantante e nella base armonica. Veramente bel pezzo, non c’è che dire. Continuiamo il viaggio in una tragedia e ci troviamo di conseguenza con una canzone come “Yearn for a Change” che somiglia molto alla “Once Solemn” di prima, se non fosse che in questa si percepisce vuoto (inteso come mancanza di personalità e dolore per le conseguenze di esso), spinta la base, ancora urlato e disperato il cantato, quà e là si avverte anche la sensazione di poter accomunare il riff di chitarra a qualche fantasma punk ani settanta o a un certo qual power teutonico. “Shades of God” è l’ennesimo rallentamento di marcia, l’ennesima introspezione tragica, sembra quasi di essere proiettati in un sudicio vicolo che si dirama sulle sponde del Tamigi che attornia Londra.”Hands of Reason” accresce il senso di impotenza che man mano, nello slegarsi della durata del brano diventa sempre di più rabbia, che si tinge di disperazione e che rinasce per essere di nuovo rabbia. Uno dei migliori brani di tutto l’album (dopo “Forever Failure” ed “Enchantment”).

“I See Your Face” rappresenta il preludio, il ponte necessario tra il primo passo aulico rappresentato dalla canzone precedente e l’ultima “Jaded”. Dalla rabbia, che si tramuta in disperazione c’è un lasso di tempo che “I see Your Face” rappresenta al meglio ed in ultimo, scoppia tutto il disagio e l’abisso della personalità frammentaria dell’uomo proprio con “Jaded”, una dichiarazione di fallimento frustrante dalla prima all’ultima nota…. Che altro dire di quest’album se non che è un classico, certamente testa di ponte tra le vecchie produzioni della band ( Lost Paradise, Gothic, Shades Of God ed Icon, nell’ordine) e le nuove (One Second, Host, Believe in Nothing e l’ultimo, sottovalutatissimo Symbol Of Life).

Certamente come tutte le band di un certo spessore i Lost abbisognano più di un ascolto per poterne carpire l’essenza tragica e disperata della loro musica, oltre tutto, testi ed intricate melodie non aiutano ad un apprezzamento subitaneo dell’album, ma per chi sa apprezzare l’arte intesa come comunicazione fine di emozioni, certamente quest’album è un classico e merita un posto a se in mezzo ad altri album di altre bands che hanno saputo comunicare il disagio di tutti noi in musica. Immenso, queste sono le mie ultime parole per descriverlo. Se poi avete la fortuna di possedere l’edizione limitata commemorativa che comprende anche, oltre ai brani citati sopra anche Embers Fire (live), Daylight Torn (live), True Belief (live), Pity The Sadness (live), As I Die (live), Weeping Words (demo), The last Time (demo), Walk Away (inedita), Laid To Waste (anche questa inedita), Master Of Misrule & Forever Failure (video), allora oltre al godimento per quest’opera, assumerete anche classici della bands che non hanno tempo nè età…

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