Recensione: Earthquake

Di Abbadon - 19 Dicembre 2004 - 0:00
Earthquake
Band: Electric Sun
Etichetta:
Genere:
Anno: 1979
Nazione:
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88

Londra, 1977. Uli Roth è in tour con con gli Scorpions per promuovere l’album “Virgin Killer” quando avviene un fatto destinato a cambiare le carriere sua e della band. Infatti, durante l’esibizione dei tedeschi in quel del Marquee di Londra, Uli incontrò nientemeno che Monika Dannemann, ex fidanzata di Jimi Hendrix, da sempre massimo ispiratore dell’axeman. Questo incontro fa riflettere il chitarrista, a cui tornano alla mente cose mai sopite, che gli fan sentire che il suo tempo con gli Scorpions è destinato a volgere al termine, viste le diversità di idee musicali. “Non abbiamo mai cercato di cambiare le sue idee” dirà Rudolf Schenker. Così, dopo i due straordinari “Taken By Force” e “Tokyo Tapes”, arriva il pacifico split, con tanto di auguri e amicizia reciproca mantenuta. Roth non perde tempo, visto che l’ispirazione non gli manca di certo, e a fine 1978 inizio 1979, fra Olympic e Scorpio Sound Studios, entrambi di Londra, registra quello che è il suo primo album solista. Tale lavoro, sotto il monicker di Electric Sun (Roth non volle avere un monicker che ricalcasse il suo nome), prende il nome di “Earthquake”, e fa la sua comparsa sulle bancarelle nell’aprile del 1979. Dedicato “Allo spirito di Jimy Hendrix”, questo platter è veramente incredibile, basta sentirlo una volta per rimanerne ipnotizzati (e infatti la critica ne parlò piuttosto bene). Tutti gli elementi della band, cercati ovviamente per far rendere al massimo il purissimo e gigantesco talento di Ulrich, fanno un buon lavoro, essenziale quanto preciso e puntuale, partendo dal basso di Ule Rigten per arrivare alla batteria di Clive Edwards. Tutto il resto, musicalmente parlando, è affidato al chitarrista, che riesce a far l’incredibile, non tanto tecnicamente quanto perché riesce a far capire che, se solo avesse voluto, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa con la sei corde, eppure mai si perde in chissà quali “sboronaggini”. Anzi dimostra un gusto ed una sobrietà del tutto fuori dal comune, cosa che non riesce a tutti i chitarristi capaci e veloci con le dita. Otto sono le song di “Earthquake” (per un pelo sotto i 40 minuti di lunghezza), anche abbastanza differenti fra loro, con però uno stile inconfondibile, che non fa fatica ad accomunarle tutte. Comincia la parata la song che ha il nome del gruppo, “Electric Sun”. Aperta in fade in da un ottimo drumming, Electric Sun è la classica canzone “psicotica”, celebrale. Il riff è splendido (ma non si può parlare di riff all’inizio), così come i giochi del nostro virtuoso, mentre la canzone in sè ricorda come stile per esempio “Polar Nights”, uscita sul già citato Virgin Killer. Se sugli assoli, pirotecnici ma di grande classe, bisognerebbe spendere solo inutili parole di lode, inizio ad individuare un punto negativo, quale è la voce di Uli. Sufficentemente intonato per carità, ma decisamente non da vocalist, credo che avrebbe fatto più bella figura con un frontman di ruolo, ma d’altronde si sa che al nostro piace cantare, quindi facciamolo cantare (che poi se ne sente anche di peggio). Molto più rotonda e tranquilla, ma ugualmente bella, anche la seconda “Lilac”, che lascia inizialmente, proprio grazie al suo incedere tranquillo, in una sorta di trama iptonica, più avanti spezzata da un altro micidiale assolo, che passa dal delicato al bizzarro al pazzo, senza mai però dar l’idea di uscire dagli schemi. Maestoso l’attacco della poi melodicissima “Burning Wheels Turning”. Grande il feeling qui trasmesso, accentuato sia nelle belle strofe che nel romantico ma diretto, folle, eclettico e impeccabile assolo, probabilmente uno dei più famosi di Uli, una vera pompa magna di lucida pazzia. Quarto brano e quarta dimostrazione di grandezza è “Japanese Dream”, lo zenith della legge non scritta professante che non solo la mera tecnica rende superiore un artista. Chiudete gli occhi e ditemi se non vi sembra di essere in un palazzo di quelli con le mura di carta, oppure seduti su una rupe, vicino a un templio dedicato a chissà quale divinità, a meditare sull’essere dell’uomo. Tutto questo è Japanese Dream, lento di charme impressionante. Brusco ritorno alla realtà più esplosiva con la magica irruenza di “Sundown”, che si apre sull’ennesimo solo da leccarsi i baffi. Per il resto ci troviamo davanti a un brano molto simile all’opener, forse con meno elementi in primo piano ma con più sfumature, che rendono il tutto notevole. Buonissimi anche basso e batteria, molto udibili e perfettamente a loro agio nel dirigere la sezione ritmica. Tempo ora della prima strumentale, la bellissima (senza mezzi termini) “Winterdays”, esercizio non particolarmente pretenzioso ma di una classe a dir poco sconfinata. Lento nell’incedere, marchia a fuoco un ascoltatore medio per orecchiabilità, decadenza e poesia, splendido. Non facciamo in tempo a riprenderci da questo sogno ad occhi aperti perché veniamo letteralmente presi a schiaffi dalla spassosissima “Still so Many Miles Away”, al pari di “Burning…” il pezzo più brioso e leggero del platter, ma probabilmente quello di maggior impatto verso un utente abituato a sentire solo classici. Grandissimo l’inizio, ma anche il resto si difende bene, a partire (manco a dirlo!) dall’ennesimo solo, per il quale vale il medesimo discorso del già citato metro di paragone Burnin, quindi famoso (nell’ambiente più che altro) e splendido. Ultima, ma non per questo meno importante, giunge la titletrack, strumentale che contiene davvero tutto o grandissima parte del genio di Roth. Cambi di tempo, distorsioni, scale, e chi più ne ha più ne metta, per 11 minuti che sono, questa volta si, musica per le orecchie di uno che conosce e apprezza tutti i lati del saper suonare la 6 corde (pur mantenendo un certo contegno di base), semplicemente da brividi. Concludendo, questo è a mio avviso probabilmente il miglior disco della carriera (assieme al secondo “Fire Wind”) solista (con gli Scorpions è un discorso a parte) di questa “reincarnazione di Jimi Hendrix”. Anzi no, perché… Roth non deve essere considerato un secondo Jimi Hendrix, ma un primo Uli Roth, perché la carriera, la classe e l’influenza di questo strumentista sono, seppur in ombra per le nuove leve, enormi per numerosi guitar heroes del presente, Malmsteen in primis (lo dice lui stesso di essere sempre stato tremendamente affascinato da Roth e dal suo modo di suonare). Long Life Ulrich Jon Roth.
Riccardo “Abbadon” Mezzera

Tracklist :
1) Electric Sun
2) Lilac
3) Burning Wheels Turning
4) Japanese Dream
5) Sundown
6) Winterdays
7) Still so many miles Away
8) Earthquake

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