Recensione: Eld

Di Tiziano Marasco - 22 Maggio 2012 - 0:00
Eld
Band: Enslaved
Etichetta:
Genere:
Anno: 1997
Nazione:
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66

1997 – La svolta!

Quella degli Enslaved che, dopo le brume invernali dell’indolente “Vikingligr Veldi” e il nero e mutevole “Frost”, cult opera dalle mille sfumature e capostipite di un intero genere, presentarono al mondo “Eld”. Se per molte formazioni il terzo disco rappresenta, secondo il luogo comune, il momento della consacrazione, la band di Ivar Bjørnson e Grutle Kjellson fece gridare allo scandalo buona parte dei puristi del black, giocandosi altresì anche una buona fetta dei loro sostenitori. Non paghi del successo ottenuto con “Frost” infatti, i nostri scelsero ancora una volta di cambiar strada, cercando forme d’espressione alternative all’epicità vichinga. Vennero dunque le fiamme di “Eld” (fuoco, appunto), disco estenuante, che dispone nell’arco di un’ora solamente sette canzoni, per un risultato finale che, se a tratti risulta più che apprezzabile, presenta diverse lacune evidenti.

L’introduzione viene demandata a tenebrose note di tastiere e corni -qualcosa che potrebbe essere finito nelle orecchie di Howard Shore prima di comporre certi passi della sua colonna sonora per il Signore degli anelli- che al quarto minuto cedono il posto a fruscii e squasci di onde seguiti da un gorgoglio vocale ammonitore. Si dipana così un semplice arpeggio di chitarra che andrà a costruire la parte centrale di “793 (Slaget om Lindisfarne)”, uno degli episodi più belli che gli Enslaved ci abbiano mai regalato. Anche le tematiche cambiano: Frost e VV erano due dischi prettamente ispirati alla mitologia nordica, 793 invece ci racconta un fatto storico . La melodia, estremamente semplice ed epica, continua sorretta da chitarre leggere e veloci su cui si staglia la voce di Kjellson che ci racconta la prima, drammatica comparsa dei vichinghi sulle coste inglesi, al monastero di Lindisfarne (Sverdslag knuste kristmanns skalle). Dopo cinque minuti di viaggio nel mar del Nord arriva l’attacco, effettivo preludio al vero sound dell’album. Le chitarre impazzano violente, la batteria è come grandine, la velocità è alle stelle per ulteriori quattro minuti di follia sonora in stile pienamente black. Da qui poi, sempre con brusca virata, i ritmi tornano a farsi lenti e riflessivi, le chitarre, sempre in primissimo piano, ora incedono plumbee, ora pigolano riflessive. Questo è quanto: un quarto d’ora di composizione che lascia estenuati. Vi ricorderete bene la parte centrale, una delle cose migliori mai fatte dai norvegesi. Eppure, dall altro lato, il pezzo presenta parecchi punti deboli. Le quattro fasi si succedono in maniera assai poco spontanea, i cambi sono tutti troppo repentini. L’idea dunque, è che i nostri abbiano voluto strafare, andando a pescare stilemi tipicamente prog senza averne ancora i mezzi.

Le impressioni cambiano notevolmente con le successive “Hordalandigen” e “Alfablot”, due pezzi di minutaggio contenuto, basati su riff rapidi e alternati con una velocità folle. L’idea è quella di fondere le costruzioni semplici di un “Panzerfaust” a quelle epiche e taglienti di un “Bergtatt“, contrapponendo strofe aggressive a ritornelli più ragionati e foschi, in cui il clean di mastro Kjellson la fa da padrone. Un discorso simile vale per “Kvasiris Blod”, dedicata ad una delle più fascinose kenning della mitologia norrena, nonché l’episodio migliore dell’album, grazie al coro vichingo che conquista sin dal primo ascolto. L’album però, contrariamente a queste ottime premesse, non decolla mai davvero. Sul fuoco degli Enslaved sembra venga gettata troppa carne; il materiale, per quanto grezzo, pare messo assieme con troppa approssimazione. Perché l’essere imprecisi non è dote propria dei nostri. Laddove “Vikingligr Veldi” conquistava con canzoni lunghe, ripetitive e ipnotiche, qui abbiamo una rapida escalation di riff che, a lungo andare, sfibrano l’ascoltatore. Dall’altro lato, nonostante i frequenti cambi di velocità, le canzoni risultano eccessivamente omogenee, e mancano le aurore boreali di “Svarte Vidder” o l’eremo meditativo di “Yggdrasil”. E dunque, sebbene le canzoni prese singolarmente siano valide, è assai difficile restare concentrati dall’inizio di “Hordalandigen” alla fine di “Kvasiris Blod”. E manca il folk che rese grandi gli Ulver, sì come l’ampio respiro dei loro cori, cori che avevano tutt’altro peso nell’economia di un “Bergtatt”, rispetto a quelli eccessivamente brevi di Eld.

Ancora più impegnative risultano “Glemt” o “For Lengen Siden” (che pur si distingue per un’introduzione quasi in odor di post metal). Ci troviamo davanti due composizioni lunghe ed omogenee, per non dire piatte. Manca infatti il refrigerio di un ritornello in clean ed entrambe le song finiscono per impantanarsi tra growl viscerali e chitarre totalmente fuori controllo. Verrebbe quasi da pensare che questo album abbia un difetto tipico di un certo tipo di prog (dove difatti i nostri finiranno a parare di lì a pochi anni), ovvero quello di essere ridondante, nonché di durare il classico quarto d’ora di troppo. E a concludere la title-track, che non aggiunge né toglie nulla al discorso fatto per “Alfablot”.

Per tirare le somme potremmo ora tornare al sangue di Kvasir: perché sembra che gli Enslaved, durante il loro sforzo poetico, abbiano ecceduto con l’idromele. “Eld”, a differenza dei tre quarti delle uscite musicali attuali, tenute in piedi dal mestiere piuttosto che dalle idee, è un lavoro sincero che esprime grandissime potenzialità. Tuttavia queste idee vengono espresse in maniera piuttosto dozzinale. Il risultato? Affascinante, ma non del tutto soddisfacente.
Di strada i nostri ne avrebbero avuta ancora molta da fare, prima di giungere ad una straordinaria quadratura del cerchio. Col tempo il fuoco degli esordi verrà spento e coperto di ghiacci psychedelici, e solo allora gli Enslaved riusciranno a riconfermarsi definitivamente come una delle migliori band estreme del panorama planetario.

Tracklist:
01. 793 (Slaget Om Lindisfarne)
02. Hordalendingen
03. Alfablot
04. Kvasirs Blod
05. For Lenge Siden
06. Glemt
07. Eld

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