Recensione: Embrace the Emptiness [Reissue]

Di Giuseppe Abazia - 28 Dicembre 2006 - 0:00
Embrace the Emptiness [Reissue]
Band: Evoken
Etichetta:
Genere:
Anno: 2006
Nazione:
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88

Dopo anni di irreperibilità, torna sul mercato un disco di assoluto prestigio nel panorama doom: il primo full-lenght degli Evoken. Uscito originariamente nel 1998 per la
Elegy Records e fuori stampa ormai da molto tempo, Embrace the Emptiness torna nel 2006 con una nuova copertina e su cd dalla superficie dorata, edito dalla label russa
Solitude Productions. Gli anni sono passati, ma la bellezza di questo lavoro non è stata minimamente scalfita: Embrace the Emptiness è ancora oggi uno degli episodi migliori in una discografia, quella degli Evoken, praticamente priva di passi falsi, ma invece foriera di qualità, personalità, grande ispirazione e raffinatezza compositiva.

Tuttavia, per comprendere al meglio questo album, bisogna contestualizzarlo nel periodo in cui uscì, e perchè no, inquadrarlo nell’ottica di quella che adesso è l’intera produzione degli Evoken. Nel 1998, prima che Quietus (da alcuni considerato il loro album migliore) venisse acclamato come un grande capolavoro del doom, prima che Antithesis of Light li consacrasse ulteriormente come una delle principali “potenze” di questo genere, gli Evoken avevano all’attivo soltanto l’EP Shades of Night Descending, un’ottima prova che gettava delle basi molto interessanti, e che già metteva in luce una personalità non comune. Ciò che ha sempre contraddistinto gli Evoken fin dagli esordi, infatti, è stato un sound assolutamente unico e inconfondibile, così personale da renderli immediatamente riconoscibili e in grado di farli emergere in un panorama nel quale non di rado ci si adagia sui clichès stabiliti dai maggiori gruppi. Embrace the Emptiness fu l’album che definì le coordinate fondamentali del loro stile, forte, rispetto a Shades of Night Descending, di una maggiore eleganza compositiva, di canzoni meglio strutturate, e di una produzione potente e pulita (sebbene non ancora cristallina come i loro successivi album). Canzoni molto lunghe (nessuna, a parte l’intro, scende sotto i 9 minuti), tempi generalmente lenti e dilatati ma non esenti da accelerazioni debitrici alla lezione dei Disembowelment, atmosfere maestose, solenni e sepolcrali, che sembrano narrare di imperi crollati e delle ombre che ancora si aggirano nell’oscurità che circonda le macerie; ascoltando gli Evoken sembra di stare in una grande cattedrale abbandonata, al di fuori della quale si è già consumata la tragedia di cui sopra, mentre non possiamo far altro che contemplare l’apocalisse già avvenuta. Le chitarre creano un muro di potenza e di disperazione, e non di rado le distorsioni lasciano spazio a stacchi acustici che acuiscono la desolazione delle atmosfere, mentre le tastiere – utilizzate in modo molto intelligente – supportano il sound con melodie ora inquietanti, ora maestose, ora malinconiche. Il basso, perfettamente udibile e molto incisivo, tiene le fila – insieme alla tastiera – dell’atmosfera in modo non invadente ma roboante al punto giusto, mentre la batteria scandisce i tempi di questa marcia funebre in modo sempre preciso e azzeccato. La voce è costituita da un growl estremamente espressivo e duttile, capace di spaziare da tonalità basse e gutturali fino a diventare quasi uno scream, ed è a volte intervallato da una voce pulita altrettanto profonda, che col suo tono lamentoso non fa che sottolineare la desolazione che permea il sound. I testi, lontani dal romanticismo propugnato da altri loro colleghi, sono invece pregni di un pessimismo cosmico espresso attraverso liriche eleganti, apocalittiche, allegoriche, che si sposano alla perfezione con la natura della musica.

Dopo un’intro strumentale che ci proietta nella cripta oscura delle atmosfere catacombali degli Evoken, le danze si aprono con Tragedy Eternal, che ci dà subito un’idea precisa di cosa aspettarci dall’album: la canzone si snoda fra parti lente e atmosferiche dove sono le melodie date dalla chitarra e dalla tastiera a spiccare, e accelerazioni violente dove è la sezione ritmica a farla da padrona. Chime the Centuries End è caratterizzata da atmosfere particolarmente cavernose e pesanti, che vengono poi accentuate nel break acustico centrale, estremamente evocativo. Lost Kingdom of Darkness invece si distingue per un bellissimo pianoforte a sottolineare i passaggi più drammatici, mentre in Ascend into the Maelstrom è una parte veloce molto galvanizzante ed epica a rubare lo show, prima che poi si spenga progressivamente nei rivoli di atmosfere sempre più plumbee e oscure. To Sleep Eternally è una cantilena di morte ossessiva e senza speranze, dove spiccano delle vocals particolarmente lamentose, e Curse the Sunrise, l’ultima traccia, dopo una prima metà lenta e ossessiva, si lascia andare ad una brutale accelerazione che fa poi spazio a un gran finale di epiche tastiere.

Embrace the Emptiness è una grande opera di un grande gruppo, un gruppo che con questo e coi successivi album si è saputo ritagliare un posto di assoluto rilievo nella scena doom, fino a diventare una delle realtà importanti e uniche del genere, e la ristampa del loro primo full-lenght è un’ottima occasione per riscoprire un capolavoro che rischiava ingiustamente di essere dimenticato.

Giuseppe Abazia

Tracklist:

1 – Intro
2 – Tragedy Eternal
3 – Chime the Centuries End
4 – Lost Kingdom of Darkness
5 – Ascend into the Maelstrom (mp3)
6 – To Sleep Eternally
7 – Curse the Sunrise

Line-up:

John Paradiso – voce, chitarre
Nick Orlando – chitarre
Steve Moran – basso
Vince Verkay – batteria
Dario Derna – tastiere

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