Recensione: Emissary of All Plagues

Di Daniele D'Adamo - 13 Dicembre 2016 - 17:19
Emissary of All Plagues
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2016
Nazione:
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56

Quarto full-length in cinque anni. E i dubbi permangono. A essere onesti, nondimeno, aumentano.

Dubbi su quale sia il misterioso valore dei tedeschi Revel In Flesh che, preceduti da un veemente, quasi esagerato battage pubblicitario, danno alle stampe con Cyclone Empire il loro nuovo album, “Emissary of All Plagues”. Un lavoro che, a priori, dovrebbe segnare un punto fermo fondamentale nella storia del metal estremo. Circostanza che, sicuramente, categoricamente, inesorabilmente, non è.

Che il suono del full-length, per esempio, sia maestoso, pieno, potente, compatto, è ovvio. Con le registrazioni effettuate presso i Vault M Studios e il missaggio/masterizzazione operate da Dan Swanö negli Studio Unisound, non poteva, difatti, essere altrimenti. Il sound del combo di Schwäbisch Gmünd è quanto di meglio si possa mettere in pratica partendo dalla teoria del death metal puro. Che è ciò che suonano i Nostri, appunto. Niente contaminazioni, niente evoluzioni, niente sperimentazioni. Né old school, né melodic, né brutal, né technical, né cyber. I Revel In Flesh vanno avanti per la loro strada, incuranti di mode e tentazioni che vadano oltre il rigoroso, completo, incondizionato rispetto dei dettami stilisti del puro e semplice death metal.

Non che questo sia un difetto da mettere al bando. In fondo, la coerenza e lo spirito di abnegazione per un approccio totalmente ortodosso alla questione è anzi encomiabile. Tuttavia, il risultato concreto è che, presumibilmente, ci saranno centinaia e centinaia di ensemble ad avere lo stesso identico stile del quintetto teutonico. Anche a passare ore e ore a ripetere il percorso dall’opener nonché title-track, ‘Emissary of All Plagues’, alla closing-track, ‘Doctor, Doctor’ – un’inutile quanto tediosa cover degli UFO – , non si riesce a definire la personalità di una band assolutamente derivativa, totalmente scolastica, tassativamente prevedibile in tutto e per tutto. Tedesca. Nell’accezione più negativa che tale aggettivo possa fornire.

Ci sono delle buone song, sì, come ‘Fortress of Gloom’ e ‘Servants of the Deathkult’, che però potrebbero essere interessanti se fossero state scritte venticinque anni fa, talmente sono poco originali nella loro forma compositiva. Tutto quanto, mood compreso, sa di già sentito. Ineluttabilmente. Ed proprio questa percezione, in fondo, che non abbandona mai l’attento ascoltatore: quella di avere fra le mani un prodotto freddo, vuoto, senz’anima. Fatto tanto per fare. Come i testi, banali anche loro, pure nella proposizione di incipit ambient che richiamano le solite storie di torture, sbudellamenti, scannamenti, morte, ecc.

La somma di tutto quanto, quando si tira la riga e si fanno i conti, alla fine, si traduce in un sostantivo solo: noia. Che, per sua natura grammaticale, non ammette sfumature. E un senso di insoddisfazione tale non può che tradursi in una bocciatura. Per i super-sopravvalutati Revel In Flesh e il loro debole, sottile, inconsistente “Emissary of All Plagues”.

Daniele D’Adamo

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