Recensione: Emotional Tattoos

Di Roberto Gelmi - 9 Novembre 2017 - 10:00
Emotional Tattoos
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2017
Nazione:
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75

Fa uno strano effetto vedere la Premiata Forneria Marconi nelle file del pregiato roaster InsideOut, gemellaggio difficile da concepire fino a pochi anni fa. E invece una – se non La – band prog rock di riferimento italiana ha firmato un contratto con la storica label tedesca per dare alle stampe il nuovo e diciassettesimo album di inediti intitolato Emotional Tattoos. La band è attiva dal 1971, dal primo concerto di spalla agli Yes è passato quasi mezzo secolo di Storia… La fama della PFM è immensa sia in Italia, sia all’estero, basti citare due fatti: i nostri figurano al 50° posto della “UK Classic Rock Hall of Fame” e il tastierista dei Dream Theater, Jordan Rudess, ha sempre ammesso che il combo è stato una delle sue principali fonti d’ispirazione.
Emotional Tattoos si presenta, tuttavia, non come un’uscita pretenziosa, ma fin da subito come un disco scevro da ogni megalomania autocelebrativa. Dopo i più sperimentali (e bellissimi) PFM in Classic, da Mozart a Celebration e Stati d’immaginazione, la musica che ci attende al varco in due versioni (italiana e inglese, come da tradizione) non ha l’intento di essere un altro tassello imprescindibile della storia della PFM, bensì un insieme di canzoni piacevoli e di qualità, che portano avanti un percorso sonoro che dire poetico, nel suo complesso, sarebbe riduttivo.
Registrato tra maggio e luglio 2017 al Metropolis Recording Studio con Alessandro Marcantoni, il platter spicca per ricerca melodica, cura dei particolari e una produzione cristallina. Circa il contenuto dei testi, il press kit afferma:

“Emotional Tattoos” finds its inspiration in a compassionate and wide look at the predicament of our planet and humanity as well as on the relationship between music and dreaming.
[Emotional Tattoos trova la sua ispirazione in un ampio sguardo compassionevole sulla situazione critica del nostro pianeta e dell’umanità, così come dalla relazione tra musica e sogno.]

Veniamo, ora, alla musica. Ci occuperemo della versione inglese, la controparte italiana, ovviamente, è prioritaria per i fan del Bel paese, ma non riserva particolari differenze e sorprese (i testi non sono un punto di forza del platter).

L’avvio è dimesso e d’atmosfera, “We’re Not an Island” richiama nel titolo la celebre frase di John Donne e vorrebbe essere un pezzo ispirato a un cosmopolitismo senza età. I sette minuti scorrono piacevoli, ma è l’assolo finale di Marco Sfogli a strappare qualche emozione. Anche la prima parte della più breve “Morning Freedom” non lascia il segno, se non nella parte strumentale mediana, con un Di Cioccio ancora in ottima forma alla batteria. Non è da mano il compagno d’armi Patrick Djivas al basso, strumento che apre col giusto piglio la seguente “The lesson”, brano vicino agli Yes, valorizzato da uno splendido assolo di Marco Sfogli, che come shredder in questa sede ha solo il problema di limitare i virtuosismi petrucciani. Filtri vocali e violino in “So Long”, traccia dal leitmotiv convincente, perché arioso e nostalgico: il finale è d’applausi e farà faville in sede live.
Ottimo stacco con l’avvio iper-progressivo di “A Day We Share”, che poi s’incarta in un refrain troppo arzigogolato, ma riserva una ricca parata di sintetizzatori. Ritornano atmosfere crepuscolari in “There’s a Fire in Me” e si respira un vago sentore psichedelico, che una band come i Marillion saprebbero far propria magistralmente. L’ottimismo della PFM ricompare nella buona accoppiata di pezzi che seguono. “Central District” è Kansas-oriented e abbonda di unisoni gustosi; “Freedom Square”, invece, rientra a pieno titolo nella lista degli highlight del platter, dimostrandosi la strumentale che tutti si aspettavano dagli autori di “Celebration“.
Nell’ultimo quarto d’ora di minutaggio, il trittico di composizioni che ci attende non sfigura, ma non raggiunge nemmeno vette qualitativamente eccezionali. Da brivido l’avvio ai tasti d’avorio in “I’m Just a Sound”, così anche l’acme strumentale al min. 3:40 (quasi prog. metal). La zuccherosa “Hannah” vince la palma di pezzo più cullante dell’album, scalda il cuore e poco importa che si muova su lidi pop. Le danze si chiudono con “It’s My Road”, pezzo pacato, ma non del tutto privo di fascino avvolgente.

Quid tunc? La nuova fatica in casa PFM vale l’acquisto (magari in versione 2LP+2CD)? La domanda imprescindibile ci vede più vicini a una risposta affermativa che a una contraria. Anzitutto il disco è ben prodotto, lo ribadiamo, lo stile di Marco Sfogli, in seconda battuta, non toglie nulla al sound dei nostri (anzi!); non mancano poi due o tre buone song (“The Lesson”, “So Long”, “Freedom Square”); infine, c’è da tenere in considerazione il fattore emotivo, la PFM è pur sempre la “prima” band prog italiana. Quello che non fa alzare il voto complessivo oltre il più che discreto sta, invece, nell’assenza di una suite e di maggiore ecletticità: tutto suona abbastanza prevedibile e veri momenti progressivi non abbondano. Detto questo sta a voi decidere se continuare la collezione dei dischi dei nostri beniamini, oppure restare fermi ai ricordi del passato che fu. A tutti, buon ascolto!

 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

 

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