Recensione: Empty Space Meditation

Di Andrea Poletti - 23 Novembre 2016 - 7:25
Empty Space Meditation
Band: Urfaust
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2016
Nazione:
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77

Meditazione dello spazio vuoto, medita l’azione o azionati meditando bene le tue mosse durante i sei anni di silenzio (split e/o Ep esclusi) che intercorrono tra “Der Freiwillige Bettler” e questo nuovo “Empty Space Meditation”. Gli Urfaust sono tornati, in silenzio come il vuoto che ci li circonda, vasto ed infinito; una creatura malvagia a suo modo inesplorata quasi al limite del minimalismo sonoro. Un’unica suite di quarantatré minuti che ruota intorno a sei movimenti quale unitaria volontà dell’andare ad esplorare quei parametri sonori che si ricollegano sì al proprio passato, ma viaggiano entro alcune differenti concezioni che indubbiamente hanno fatto capolino in questo silenzio così lungo. Ora rimane un quesito fondamentale alla base della comprensione di questo disco, una domanda che generalizzando su di un aspetto più globale diventa: “Non è che ci siamo fatti prendere un pò la mano da questa moda del drone?” Stiamo notando una dose massiccia negli ultimi anni dell’aumento dell’effetto, a tratti operistico, di questo “drone-oriented-black-metal” al fine di apportare maggiori sfumature e variazioni a livello epatico dentro l’ascoltatore. Non è un male sia chiaro, andare oltre e promuove la fuga dai classici stilemi è quanto mai valido che promettente; gli Urfaust hanno imparato bene la storia e oggi riescono finalmente ad avere un buon compromesso tra statica violenza e eterogeneità trasgressiva, in poche parole “Empty Space Meditation”.

Per entrare dentro questo mondo fatto sì sotto strutture, a tratti udibili soltanto dall’orecchio più fino, servono pazienza e poche disattenzioni; basta poco sin dai primi minuti, da quell’intro malinconica di oltre cinque minut,i per portarsi dietro una pesantezza che se non sconfitta ci accompagnerà per tutta la durata. Le cinque vere canzoni qui presenti tentano di costruire quell’architettura pseudo avanguardista  e proto-sperimentale che è insita da sempre dentro il gruppo, portando però all’esplosione controllata ogni passaggio, quasi a voler far aguzzarre l’udito dopo un silenzio “meditativo”. Giochi di contrasti, sfumature che ondeggiano, come dentro ‘Meditatum II’, dove screaming, clean vocals epiche ed evocative si intrecciano su uno sfondo dato da quell’orchestrale post-black che s’ingrassa ad ogni ascolto di marcio e odio interiore. Anche l’organo sul finale ci offre molto in termini di decadente funerea malavita, quasi a suggellare un patto col diavolo lungo una vita intera trascorsa nella involontaria anarchia. ‘Meditatum III’, insieme al fratello ‘Meditatum IV’, è un lento camminare formato da mid-tempo alchemici ed infernali, il doom prende forme distanti dai classici strumenti per delinearsi su tempistiche create più dall’organo con i synth alle spalle. Il vuoto, quello spazio metafisico evocato dal titolo stesso raggiunge il suo picco limite per entrare in completa sintonia con il naufragare entro le onde più alte dell’oceano. Affogo. Le urla che tagliano la pelle tramite la perfetta unione della produzione grezza, tendente alla Scandinavia di un tempo passato e le atmosferee “De chirchiane” dove la cittò perfetta diventa gemito inesplorato; luci e ombre, ansia e cospirazione tramite una tensione superficiale mai doma. ‘Meditatum V’ è pura avantgarde che lascia il black contemplativo in retrovia, distorcendo e disorientando con una prestazione vocale teatrale su di un riff cadenzato e marziale; è all’antitesi di tutto quello che è stato percepibile sino ad ora con una tendenza alla sperimentazione degli ultimi Virus, ancora meglio quella malforme creatura dei Ved Buens Ende ritorna sul terreno più fertile. L’amorfo. Il finale con ‘Meditatum VI’ è dedicato ad un incedere dalle tinte indiane ed arabescate, dove un vocalizzo monotono, si delinea all’orizzonte come a voler suggellare la chiusura di questa lunga disavventura e l’inizio vero e proprio del percorso purificatorio. Rimaniamo in balia del destino che ha l’ingrato compito di accompagnarci verso il purgatorio interiore tramite canzoni fuori dagli schemi.

Un urlo di terrore esistenziale per placare le paure ataviche; canzoni dall’impatto viscerale, ritmi che richiamano il tribalismo e melodie pacificanti. Un insieme di pensieri astratti più che una memoria di suoni stessi quali “spazio vuoto di meditazione” che diventano riflesso per l’ascoltatore e che lascia una sottile ed insidiosa impressione. Chi da sempre segue la carriera degli Urfaust non disdegnerà questo nuovo capitolo, un disco che apre molte strade al futuro del gruppo; sperando di non attendere altri sei anni, questa pentola ribollente ha in serbo moltissime nuove contaminazioni e sfumature sonore, per goderne maggiormermene e più a lungo. “Empty Space Meditation” è il valore aggiunto alla costante contaminazione del black del nuovo millennio, la sintesi perfetta dell’andamento del contemporaneo: unico.

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