Recensione: EOD: A Tale Of Dark Legacy

Di Andrea Poletti - 30 Gennaio 2017 - 7:07
Eod: A Tale of Dark Legacy
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2017
Nazione:
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73

Inizio e cancello questa recensione, le parole sfuggono e il pensiero che non è una analisi facile corre prepotente; i The Great Old Ones non hanno una disamina semplice, ogni loro album ha un contrasto di odio e amore al suo interno che vive secondo regole sue. Black metal Francese ma che non odora della scena d’oltralpe se non per dettagli e alcuni passaggi, possono essere visti come un mondo a se stante, un complesso multiorganico che respira distante dai classici dogmi che abbiamo imparato a conoscere negli anni; Eod dal canto suo non si discosta dal passato ed esplora continenti nuovi, difficili e prepotentemente ostici. L’idea di andare a gestire l’intero album su di un concept che ruota intorno al romanzo di LovecraftLa Maschera di Innsmouth” (The shadow over Innsmouth del 1936) porta più o meno direttamente il gruppo a interfacciarsi con sonorità nuove e ostiche, dove il black di stampo Scandinavo che imperversava dentro le loro tracce del passato, oggi si è fatto da parte andando ad aumentare la spazio nelle tempistiche, dilatare i riff e portare all’interno della struttura compositiva un postmetal di ottima fattura. Certamente le carte in tavola non hanno mutato la spina dorsale, non è stato stravolto completamente il suono della band e tutto è ancora riconoscibile ma il mutamento è avvenuto, sta avvenendo.

La differenza che più salta all’occhio in questo nuovo terzo album formato da sole 5 tracce vere e proprie, è la produzione più curata e potente rispetto ai precedenti dischi, l’inserimento nel rooster di una major ha sicuramente portato i suoi frutti in termini prettamente produttivi. Le sfuriate e le linee guida che in passato hanno dato origine a brani magistralmente riusciti, oggi vengo pervase da una velatura di malinconia dove la rabbia e la frustrazione non diventano il punto focale dell’intero cocepimento. Paradosslamente infatti l’atmosfera “Lovecraft-iana” è stata assimila anche nel mood vitale, basta l’esempio dell’iniziale ‘The shadow over Innsmouth’ per comprendere come la rasoiata inziale muta e plasma man mano progredendo verso un multi sfaccettato dove a 3:03 l’alone di oscuro pentimento prende forma, i tempi si allungano e gli arpeggi più armoniosi e delicati si annientano a vicenda sino all’invasione delle tastiere nella seconda parte, volte ad aumentare l’effetto sinfonico. Dieci minuti di viaggi interiori e visioni catartiche negli abissi dell’uomo. Anche la successiva ‘When The Stars Align’ nella sua brevità ricalca lo stesso iter compositivo, andando a giocare su tempi in contrapposizione dove al centro si ritrova lo stacco “doom” prima della sfuriata conclusiva. La sensazione del prevedibile e di una leggera poca dinamicità si avverte, ma tutto sommato possiamo che rimanerne più che compiaciuti poiché si tratta sempre di un album studiato e meticolosamente suonato. ‘The Ritual’ può essere vista come la canzone più lenta e catatonia dell’intero disco, dove le tastiere prendono forma e le atmosfere si fermano, rallentano per catapultarti dentro un rituale vero e proprio; questa è la traccia più sperimentale, quella dove il vero salto di qualità si può intravedere con richiami al passato sempre presenti, mescolati con quello che ad oggi è la vera essenaza del gruppo. ‘In Screams and Flames’ non si aggiunge molto altro rispetto a ciò che abbiamo ascoltato sino ad ora, diventa bene o male una copia carbone delle prime due canzoni a dispetto della conclusiva ‘Mare Infinitum’ che può essere vista come la summa dell’intero percorso compositivo dei The Great Old Ones ad oggi. Un brano delicato ed al contempo riluttante verso la specie umana, dove l’introspettiva decadente e cupa emerge per la maggiore; i cori sul finale impreziosiscono l’opera andando ad aumentare la coralità del tutto, innalzando esponenzialmente la dose di “progressione” sonore insite nella volontà dei Francesi. Ottimo il lavoro di batteria che accompagna l’intera durata del brano e l’utilizzo delle tre chitarre fornisce la possibilità di viaggiare in spazi astrali distanti anni luce dal creato terrestre; detta sinceramente tre chitarre per la musica proposta non hanno alcun senso, ma non è il nocciolo della questione e i motivi li avranno dalla loro, così è, così li teniamo.

In sintesi questo terzo capitolo è la dimostrazione che in una discografia di un gruppo il terzo passo è il più tremendo, quello che testa le vera volontà di una band; Eod è al 100% un album di transizione che potrà senza dubbio aprire porte alle più svariate sperimentazioni poiché da qui in avanti, ora che la tecnica e la capacità è stata affinata, i The Great Old Ones hanno davanti a sé una strada completamente in discesa. Non un capolavoro, nulla di stravolgente ma un ottimo disco che ci conferma il buono status di salute del combo, che lascia da parte la grezza pietra degli inizi, tenta di schiudersi ma non riesce completamente ad elevarsi, ma è questione di tempo. Merci beaucoup.

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