Recensione: Eriú’s Wheel

Di Stefano Usardi - 26 Aprile 2019 - 10:00
Eriú’s Wheel
Band: Waylander
Etichetta:
Genere: Folk - Viking 
Anno: 2019
Nazione:
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70

A ben sette anni di distanza da “Kindred Spirits” vede la luce “Eriú’s Wheel”, nuovo album degli irlandesi Waylander: per chi non la conoscesse, questa corpacciuta compagine è dedita a un folk metal di stampo celtico e raggiunge oggi il traguardo del quinto full lenght in più di vent’anni di carriera. Per l’occasione i nostri decidono di giocarsi la carta del concept album, anche se non in senso stretto. Le nove tracce che compongono questo “Eriú’s Wheel”, infatti, sono legate solo dal fatto di riguardare altrettante festività del calendario celtico (la Ruota di Eriú che, appunto, intitola l’album): si parte giustamente da Samhain, il capodanno celtico in seguito inglobato (diciamo così) nella festa cristiana di Ognissanti, e si arriva fino all’Equinozio d’Autunno.
Folk metal di stampo celtico, si scriveva poco fa: espressione che può voler dire tutto o niente, raccogliendo al suo interno stilemi e declinazioni anche piuttosto diversi tra loro, ma in questo caso possiamo parlare di un classico amalgama di chitarre heavy con qualche sporadica spolverata di black, il tutto condito da strumenti quali flauti, violini e bodhràn per proporre melodie riconducibili alla terra d’Albione o le sue immediate vicinanze. La componente black di “Eriú’s Wheel” viene gestita bene, dilatata il giusto e spogliata delle sue componenti più cacofoniche e ferine, per sposarsi con le melodie danzerecce tipicamente folk senza per questo perdere la sua struttura agguerrita. Le chitarre graffiano quanto basta su una struttura ritmica solida ma frastagliata al tempo stesso, mantenendo le velocità piuttosto contenute per lasciare agli strumenti tradizionali il compito di ricamare le loro contro-melodie intessendo, così, il proprio incantesimo. L’unico appunto che posso fare all’album, a parte una presenza fin troppo preponderante del flauto e una certa staticità compositiva di fondo (che, però, ho visto più come un tentativo del gruppo di restare on topic che non come una mancanza vera e propria), riguarda la voce: lo scream di Ard Chieftain O’Hagan, seppur giustamente ruvido, mi è sembrato un po’ a corto di mordente e di personalità, e ha finito per togliere incisività al risultato complessivo. Non male, invece, gli inserti di voce pulita, che con la loro lamentosa carica rituale piazzata in punti strategici hanno creato un certo contrasto con la musica dei nostri.

L’album si apre col crepitio di un fuoco e un arpeggio malinconico: “Betwixt Times” apre le danze con un incedere solenne, recitativo, cedendo rapidamente spazio a “As Samhain Comes”. L’apertura dal retrogusto black rende l’atmosfera del capodanno celtico, in cui, tradizionalmente, il velo tra i mondi dei vivi e dei morti è più sottile. I tempi si fanno scanditi, indulgendo in un lento ed ipnotico girotondo cullati dalle note serpeggianti del flauto. L’improvvisa e fugace alzata di tono screzia la composizione con un profumo più maestoso e trionfale, prima di tornare ai tempi lenti e meditativi che caratterizzano la traccia. L’ultimo quarto della canzone si fa arcigno, insistente, mentre il flauto continua con la sua opera di logoramento fungendo da contrappunto alle chitarre. “Shortest Day, Longest Night”, dopo un arpeggio desolato, apre a riff cadenzati, lenti e plumbei, su cui si innesta una voce inizialmente pulita dal retrogusto sacrale. La traccia giocherella con diversi umori, passando dall’oscurità del black alla carica speranzosa e più calda degli innesti folk, per richiamare la rinascita imminente del sole dopo le lunghe notti culminate nel solstizio invernale. Con “Imbolc” le atmosfere si fanno più grandiose, abbandonando il gelo invernale per gioire della rinascita del mondo. Non mancano sfuriate dal retrogusto black, ma il tono generale della canzone è leggermente meno incombente di quella che l’ha preceduta; il breve assolo carico di feeling ne è un ottimo esempio, così come la seconda parte della canzone, che si muta in una vera e propria cavalcata. “The Vernal Dance” si apre con un incipit bucolico, tutto bodhràn e flauti, a simboleggiare l’avvento della primavera durante l’equinozio. La componente folk si impone pretendendo il suo spazio, diventando perno centrale della traccia e trasformandola in una sorta di power-ballad folk in cui i cori puliti fanno da contraltare allo scream di Chieftain. “Beltine” vibra di colori, con chitarre propositive e l’immancabile flauto che si insinua tra un riff e l’altro (forse finendo per essere un po’ troppo invadente, di tanto in tanto). La canzone, dall’incedere insistente tipicamente heavy, viene spezzata nella seconda metà da un breve intermezzo acustico che apre al solo e all’alzata di tono finale, dai toni più trionfali. “As the Sun Stands Still” prosegue con questo tono propositivo grazie a un andamento anthemico intervallato da passaggi dal profumo contemplativo, quasi rituale, per omaggiare il solstizio d’estate e, con esso, il Sole. Il ritornello carica le melodie sfumando poi in un passaggio più dilatato che, a sua volta, cede terreno a un improvviso irrobustimento del suono poco prima della chiusura. “To Feast at Lúghnasadh” parte incombente, salvo poi sciogliere di poco la tensione e svilupparsi come una canzone più vorticosa, aizzante, abbastanza lontana dalle solite e ben più innocue tracce di certo folk danzereccio. La carica combattiva che screzia la traccia col suo senso di incitamento continuo richiama (almeno credo) l’agonismo dei giochi che si tenevano durante questa festività in onore del dio del Sole Lúgh. L’intermezzo acustico centrale dona anche qui, grazie all’intromissione della voce pulita, un certo sapore rituale al tutto prima del ritorno in scena degli strumenti elettrici. La Ruota di Eriú si chiude con l’equinozio d’autunno celebrato in “Autumnal Blaze”. Le giornate si accorciano, cedendo progressivamente alle ombre, mentre il mondo inizia il suo lento crepuscolo. La traccia conclusiva è un’altra bella frustata, e descrive l’atmosfera autunnale con riff nervosi e melodie tradizionali rese in modo arcigno, ponendo il giusto sigillo su un album solido, omogeneo e ben strutturato, lontano dal folk cinguettante e per questo apprezzabile ma, ahimè, penalizzato da una resa vocale a mio avviso troppo grossolana e da qualche brano un po’ sottotono. “Eriú’s Wheel” rimane comunque un buon esempio di folk metal sentito e passionale e per questo mi sento di consigliarlo a tutti gli amanti del genere, ma forse gli manca quel guizzo che potrebbe permettergli di svettare sopra la concorrenza.

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