Recensione: Eternal Turn of the Wheel

Di Marco Migliorelli - 2 Marzo 2012 - 0:00
Eternal Turn of the Wheel
Band: Drudkh
Etichetta:
Genere:
Anno: 2012
Nazione:
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77

È vento; è bianco; è forma. La forma cangiante di un grande vecchio. Il profilo errante di una sfuggevolezza antropomorfa che spira dalla terra, l’età in chiome nivee che soffiano adagio oltre la curva altezza: in evoluzioni eoliche. L’albero semina le proprie radici in cielo, curva. Un volo a margine, d’ali annuncia che la persistenza di ogni forma è nella trasformazione. Nulla è immobile nella copertina del nono passo dei Drudkh. Nulla se non l’istante. E le volute geometrie naïf accordano l’animo al titolo: “Eternal Turn of the Wheel”. Il vento stesso introduce al passaggio. I cicli eternamente si perpetuano, a dispetto di una umanità disattenta. Non è dato ramo senza radice, quel che viene reciso muore ed è tacita legge che pulsa nella musica degli ucraini. Il monito vivo della Storia così caro all’epica nuda, poetica ed elementale della loro musica non misconosce la centralità della propria terra. Nove passi, nove dischi ed un cambiamento imprevisto che in Handful of Stars aveva visto le schiere dividersi, e come dardi fioccar nello stupore critiche ed apprezzamenti. Brani come “Towards the Light” ammiccanti alle sospensioni interstellari del post rock, avevano spezzato il nobile sigillo fra poesia e umana, passionale feralità del sound di più famosi lavori. La sosta nell’universo sperimentale di Alcest è stata l’ultima tappa di un viaggio dal quale non si torna immutati.
Ecco allora che quell’immagine in apertura infrange l’istante e torna a muoversi. La ruota gira, il grande vecchio parla: “Non v’è forma che nel mutamento”. La musica dei Drudkh arriva col vento e sfuma nella semplicità del passo che cala nella neve alta e appena cedevole. Non respinge i cicli naturali. La radice di questa musica primordiale, che affascina la storia col richiamo sferzante e remoto della natura di una terra amata nel verso così come nello sguardo diretto e sincero, è viva.


La sua forma non può che piegarsi al tempo nel mentre che la sua sostanza si rinnova nel mutamento. La ruota gira ed il ritorno alle “vecchie sonorità” è certo sempre nella rassicurante cadenza del passo ma anche nella diversità di un sentiero che il tempo impone, inevitabilmente, ad ogni percorso musicale. Chi come me ha amato, fra i lavori più recenti, Microcosmos, non tarderà a scoprire che questi erranti, scagliata dietro le spalle quella manciata di stelle, è qui che tornano ad indugiare.
Trentasette orme, 37 per ogni minuto immolato ai cicli, in onore ai versi della poesia d’ucraina.
Certo son pochi minuti per l’attesa di questo Grande Inverno, pochi per chi in quella manciata di stelle ha vaticinato qualche anno fa una perdita. In guardia comunque, la brevità non vi inganni.
Il tempo è sincero con l’ispirazione dei 4 brani, non meno dell’appassionata, leale delusione di non poter accarezzare più a lungo l’ascolto di un disco in cui il compromesso fra le sonorità del black e il missaggio degli strumenti plana sui campi della concretezza.
“Eternal Circle”, qui il vento contende ad ogni strumento umano la supremazia del Lai introduttivo. Cade nell’oblivio anche il pianoforte che ammiccava in Handful of Stars ed è nell’appena di un corso d’acqua che si consuma, roso immediatamente dall’ondata di piena del drumming, l’inizio di “Breath of Cold Black Soil“. I superstiti dell’armata allo sbando, spiazzati e delusi dalla poetica insolita della precedente release, sortiranno in sorrisi cupi e riconoscenti. Ritroveranno la strada di casa.
I Drudkh sono tornati alla guida del proprio sound. Il break del primo brano ricorda che ogni lezione è stata metabolizzata: così annunciano rallentamenti e tastiere ma al fianco dello screaming di Thurios cavalcano batteria e chitarre, serrate. Loro è il passo che contende alla Lentezza.
Breath s’estingue nel rintocco mentre sulle chitarre s’impone martellante ai quattro arti la batteria.
E poi eccoli. Sono i suoni a filtrare subito il maglio della trepidazione. Non senti forse il legno delle bacchette drummare forsennato o scandire la magistralmente appresa Lentezza delle chitarre? Ecco cosa amiamo nell’ascolto della musica minimale -chitarre, batteria e screaming su tutto-, nella misura in cui si concede schietta, senza troppe sovraincisioni, priva di orpelli (eppur ricca di ombre come solo il gioco della luce sulla neve sa darne quando è il giorno a declinare): amiamo percepire quella materia stessa che produce il suono, quell’umanità che la anima. Qui Eternal Turn of the Wheel riporta i Drudkh non semplicemente al mestiere di suonare quanto al rinnovato incontro con l’onestà ancor “barbara” del suono, (nel senso pieno del termine, direi Romantico). Un missaggio vero, tangibile nell’udito che in “When Gods Leave Their Emerald Halls” spontaneamente riconduce le mie parole alla verità incontrovertibile della musica. L’andatura inarrivabile degli Dei permea la concretezza del legno che batte mentre la batteria incalza se stessa in accelerazione. Nel mentre, richiami sonori che non sapremmo definire donano la profondità dell’eco allo scrosciare ininterrotto delle chitarre.
Il suono s’asciuga al termine, l’arpeggio incita la notte a trasparir nella sua veste sonora ed è qui che il ricordo di Neige si fa vivido.
Ma è dai cieli di Ucraina che cade ora la neve. Ed è ucraina la voce di Thurios: “Addio all’autunno”.
Farewell to the Autumn’s Sorrowfull Birds rallenta sulle parole. S’alza il vento a smuovere frondose chitarre. Il basso apre un tocco lento e meditabondo. Il passo degli erranti quasi s’arresta nella neve.
Riemergono i rumori della terra di cui l’album è rinovellato attraversamento. Gli ultimi due brani indugiano maggiormente, non a lungo: batteria e chitarre caricano compatte mentre la voce incita al canto della terra, quale il messaggio? Parlano i passi nella neve, i corvi “mai più, mai più” che beccano la porta invetriata dell’inverno, i titoli delle canzoni: nulla oltre questo. Non v’è ad ora che il mistero di una testualità che con i migliori propositi si rivelerà per la solita letteraria eccellenza. Tesse la notte neve ai venti; e venti fra le stelle chiomate di grigio. Ultimo il giro della ruota. Breve sull’uscio la sosta, prima che il brano riparta con un tiro di chitarre e batteria in bellezza pari a When Gods…Quarto momento. “Night Woven of Snow, Winds and Grey-Haired Stars”, chiude il cerchio all’origine e affida al vento con fiducia il richiamo che è nel nome del disco: Forgotten Legends.


Dopo dieci anni di un cammino intenso, personale e intimamente vissuto di là del puro aspetto musicale nella piena adesione individuale ad immagini e contenuti la sfida alla propria creatività è di non poco spessore: si pone sul piano del confronto fra l’origine e l’inevitabile tempo.
Certo all’ambra della corteccia si mescola il retrogusto amaro della radice per quella brevità da EP che è tale non tanto per il richiamo a classificazioni di commercio, quanto per un vago, innamorato senso di mancanza laddove un quinto atto avrebbe posto con più forza il sigillo della compiutezza.
Scelte artistiche sulle quali è vano indugiare.
Accade comunque che un compromesso fra la radice del sound ed ogni singola tacca sulla lama degli anni è stato raggiunto.
Cosa resta a noi? L’identità del ramo e la nuova linfa. La premessa di un nuovo corso ma all’interno del circolo senzafine di un sound ormai noto. La ruota gira. Il ritorno all’ortodossia musicale non rinnega una briciola del più recente passato. Per chi avesse abitato l’attesa al margine estremo dei propri dubbi, la mente riconoscerà nell’ascolto le fattezze rassicuranti del gruppo che ha seguito per una decade piena. Ai seguaci dello straniamento completo è riservato invece il tono moderato di una sincera ortodossia musicale, che rispetto alla propria distinguibile identità non si irrigidisce fino al rigore di un piatto, inespressivo autocitazionismo.
Cosa resta dopo la poesia?
Non resta che il vento a portar via le nostre aspettative come le nostre delusioni; la nostra tenacia di erranti, i passi di ogni grande vecchio, la rarità del suo passo; ed infine il vento stesso.

Marco “Fleba_il_Fenicio” Migliorelli

1. Eternal Circle 01:17
2. Breath of Cold Black Soil 10:04
3. When Gods Leave Their Emerald Halls 09:39
4. Farewell to Autumn’s Sorrowful Birds 08:02
5. Night Woven of Snow, Winds and Grey-Haired Stars 08:12

Tot.: 37:14

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