Recensione: Eternity

Di Mattia Di Lorenzo - 30 Novembre 2006 - 0:00
Eternity
Band: Kamelot
Etichetta:
Genere:
Anno: 1995
Nazione:
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63

Mentre proprio in questi giorni i Kamelot stanno scrivendo in modo indelebile il proprio nome nell’albo delle migliori band power metal del momento con lo stupendo DVD One cold winter night, non è una cattiva idea fare un passo indietro e tornare all’inizio della loro carriera, quando, nel 1995, uscì il loro primo album, Eternity, sotto etichetta Noise Records.
Inutile dirlo: i Kamelot di allora non sono quelli di adesso. Per citare due assenze “a caso”, mancavano un certo Roy Khan dietro al microfono e un tale Sasha Paeth in produzione. Il cantante era Mark Vanderbilt, mentre alle pelli si trovava il founder Richard Warner. La proposta musicale era molto diversa da quella attuale, distantissima tanto dall’esuberanza di The Fourth Legacy e Karma, quanto dalla “rocciosità” e suggestione di The Black Halo. Era una musica non certo priva di punti di interesse, a suo modo estremamente originale, in un campo saturo di gruppi-copia l’uno dell’altro senza un briciolo di idee in testa. Ma era anche una musica parecchio difficile, ricercata e raffinata forse oltre il limite del lecito. Tant’è vero che, nella recentissima intervista a Truemetal, lo stesso chitarrista Youngblood l’ha in qualche modo rinnegata, dichiarando che, dal canto suo, il vero esordio dei Kamelot si ha con The Fourth Legacy.

Ma veniamo a parlare sul serio del cd, per capire un po’ meglio di cosa di tratti. Si inizia con un maestoso preludio orchestrale che sembra evocare l’ingresso a teatro di Luigi XIV nella Francia seicentesca, tipico inizio del “solito” disco power: se si pensa questo, si è completamente fuori strada! Anzi, è lecito chiedersi cosa ci stia a fare, visto che col resto non c’entra nulla. Poco meno di un minuto, e la melodia si interrompe, lanciando la batteria in un ritmo irregolare, in qualche modo spiazzante. Ma Vanderbilt, spiazzante, lo è ancora di più, con uno dei timbri vocali più strani e surreali che si siano mai sentiti in ambito power: il cantato è malinconico, intimo, decisamente coinvolto, ma forse un po’ troppo lamentoso, risultando a tratti decisamente stucchevole. La titletrack è alquanto complessa, non lineare ed enigmatica. Il ritornello è un po’ piatto, la linea melodica non è ampia e distesa come nelle “normali” canzoni di genere. Non è facile definire la prima impressione che si prova: interesse forse, morbosa curiosità. Ma anche un filo di sano disgusto, forse… non sono sicuro che sia un’impressione del tutto positiva, comunque.
Black Tower prosegue esattamente lungo la stessa strada, accentuando l’impressione di straniamento dell’ascoltatore. Il ritornello è più chiaro in questo caso, ma non per questo maggiormente melodico. Non certo cantabile da un pubblico, comunque. Call of the sea presenta invece in sé qualcosa di beffardamente riconoscibile, il germe di quello che saranno i Kamelot di poi: il riff iniziale di chitarra anticipa i mid-tempo di Karma o Epica e permea di sè tutta la composizione, con un geniale uso della scala ascentente/discendente a imitazione delle onde marine. Canzone più che buona, una delle migliori dell’album, nonostante le tastiere siano poste in una certa evidenza solo verso la fine (laddove l’uso magistrale dei synth, con cinque/sei timbri diversi per canzone, è uno dei marchi di fabbrica del gruppo americano di poi). La successiva Proud Nomad non mostra molto di nuovo, se non una maggiore presenza delle chitarre, con un riff leggermente più complesso.
Red Sands inizia con un non-inizio arrembante, che ci catapulta in un cantato leggermente più arioso e meno intricato delle altre canzoni. Bello soprattutto il passaggio centrale, accompagnato da tastiera sola, in cui Vanderbilt riesce a dare il meglio di sé anticipando il tono teatrale, pieno e barocco di “Sua Maestà” Khan.
Le tre canzoni successive ripetono il cliché che siamo andati fin qui delineando, senza aggiungere nulla, semmai togliendo l’effetto sorpresa iniziale, che tutto sommato stava ancora tenendo desto e incollato all’album anchel’ascoltatore più refrattario. Ci pensa What About Me a risollevare le sorti dell’album. Ballad davvero ben fatta, abbastanza semplice nella struttura, quanto decisamente ardua da cantare; eppure, Vanderbilt si trova davvero a suo agio nei tortuosi meandri della canzone dando luogo a un’interpretazione a tratti veramente struggente. Il cd si chiude, dopo il brevissimo interludio strumentale Etude Jongleur, con The Gleeman, canzone molto più tradizionale delle altre, ispirata tanto al power metal “classico” quanto ad alcuni passaggi degli Iron Maiden, che ripercorre, a dire il vero, in modo abbastanza sterile.

Che dire in conclusione? Eternity è un album complesso; i musicisti tecnicamente ci sono e il cantante, nonostante l’eccessiva ampollosità, sa il fatto suo. A questo punto, è giusto premiare l’originalità e il coraggio di un gruppo agli esordi, che vuole fare le cose seriamente per irretire un’elite di iniziati, o condannare un lavoro che, tutto considerato, in fondo in fondo non riesce mai a piacere per davvero? La verità sta nel mezzo.
La produzione è discreta, ben lontana dai fasti dell’era Paeth, ma comunque passabile. Che vinca la simpatia che provo per i Kamelot, i premi che hanno vinto e continueranno a vincere, grazie all’incredibile lavoro che avrebbero svolto di lì a qualche anno. Che sia la sufficienza. E anche qualcosina in più.

Tracklist:
01. Eternity 
02. Black Tower 
03. Call Of The Sea 
04. Proud Nomad 
05. Red Sands 
06. One Of The Hunted 
07. Fire Within 
08. Warbird 
09. What About Me
10. Etude Jongleur
11. The Gleeman

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