Recensione: Evst

Di Carlo Passa - 22 Gennaio 2014 - 15:57
Evst
Band: Hamferd
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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85

Le isole Fær Øer sono lassù, nella massa d’acqua che separa il Regno Unito dall’Islanda. Resta discussa l’etimologia del loro nome: c’è chi porta argomenti a favore di “isole delle pecore” e chi propone un semplice “isole remote”. Fatto sta che sicuramente sono luoghi lontani dalla terra più prossima; e ci vivono più pecore che esseri umani.
Tra gli esseri umani non dovrebbe essere trascurabile il numero dei metallari, visto che da meno di cinquantamila persone sono emerse almeno due band di tutto rispetto. A fianco degli ormai affermatisi Týr, infatti, ecco i meno noti Hamferð, di cui questo Evst rappresenta la seconda uscita discografica dopo l’EP Vilst er Síðsta Fet del 2010.
Sgombriamo subito il terreno da ogni dubbio: dei Týr non c’è traccia. E per fortuna, così da evitare tediose ripetizioni e ogni possibile idea di una “via faroese al metal”, che non valorizzerebbe a dovere la diversa natura stessa di quei luoghi isolati.
Qui si tratta di doom/death metal, con influssi folk dovuti più ad alcuni momenti molto morbidi che non all’uso della lingua faroese, davvero musicale e adatta allo scopo. Il faroese è una lingua indoeuropea germanica del ceppo settentrionale dal carattere piuttosto conservativo, come è tipico delle lingue periferiche (e, più in generale, di tutto ciò che non appartiene al centro, che è, a sua volta, il luogo dove i cambiamenti avvengono per la prima volta e più di frequente). Anche qualora si fosse dotati di una buona conoscenza delle lingue scandinave, non sarebbe facile comprendere i testi degli Hamferð, benché qui e là si nascondano indizi che aiutano a comprendere come il faroese non sia esente da contatti con le lingue sorelle. Un esempio è nel titolo stesso del disco: “Evst” significa, infatti, “il più alto” e non è difficile individuarvi il suffisso superlativo “-st”, comune ad esempio con l’inglese, e (ma qui azzardo) la base “ev-” che rimanda alla medesima radice dell’inglese “high”. Dunque, “ev-st” corrisponderebbe ad “high-est”.
E altissima è la qualità dei pezzi di Evst, un vero viaggio dalle molte sorprese, condotto da un cantastorie d’eccezione come Jón Hansen.
Evst, il pezzo omonimo del disco, apre le danze e sembra non discostarsi più di tanto da altri prodotti di ambito doom/death: tempi lenti, poche e strascicate note, atmosfera oscura. Ma è proprio la voce di Hansen a rappresentare quel valore aggiunto capace di distinguere in positivo gli Hamferð da prodotti simili; calda, ma anche stentorea e vibrante nelle parti pulite, soffocante nel growling, la voce degli Hamferð sa davvero imprimere epicità e oppressione alle canzoni. Se voleste un nome, vi citerei il miglior Warrel Dane; ma son paragoni che lasciano il tempo che trovano.
Deyðir varðar e Við teimum kvirru gráu sono brani di grande spessore; dotati di strutture complesse e una durata corrispondente, riescono a non perdere dinamicità pur nei molti cambi d’atmosfera, che la band dimostra di essere in grado di gestire alla grande. Anzi, proprio la varietà rappresenta la qualità distintiva migliore dei due pezzi, realmente evocativi grazie anche a melodie straordinarie e soluzioni non banali (soprattuto in Við teimum kvirru gráu). E qui si affacciano i My Dying Bride.
At jarða tey elskaðu ruota intorno a un arpeggio acustico su cui s’innesta la voce quasi sussurrata di Hansen. La band è eccellente nel trasferire sui solchi (digitali, ahimè) sensazioni che sanno delle nebbie, delle infinite notti, della solitudine e del silenzio che sono patrimonio comune dei faroesi.
Sinnisloysi significa “follia”. Il pezzo è coerente con il titolo, così opprimente nella sua lentezza su cui si stagliano, alternandosi senza confliggere, il growling di Hansen e la voce della cantante folk Eivør Pálsdóttir.
Ytst (“il più esterno”, equivalente all’inglese “outmost”: “yt-” + “-st”) ci conduce fuori dal mondo degli Hamferð con un viaggio di dieci minuti abbondanti lungo i quali si alternano tutte le caratteristiche della band: dal folk quasi sussurrato al doom più lento che possiate immaginare, passando per epicità cadenzata e aperture che non si concludono mai. Pezzo non semplice e di nulla assimilazione, come è fisiologico in questi casi, ma realmente in grado di condurre l’ascoltatore in un altrove fonte di autocoscienza e, alfine, di serenità.
La produzione è minimale. Direi perfettamente minimale, per non sporcare con inutili sovrastrutture il pathos trasmesso da musicisti e cantante. Vi parrà di vedere la band suonare davanti a voi: e, vi garantisco, è un gran bel luogo dove passare un’ora scarsa della vostra vita.
Lo so: prima o poi, vedrò le Fær Øer. Gli Hamferð mi hanno fornito l’ennesima buona ragione per farlo.
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