Recensione: Faerenus

Di Stefano Usardi - 14 Settembre 2018 - 9:00
Faerenus
Band: Kormak
Etichetta:
Genere: Folk - Viking 
Anno: 2018
Nazione:
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75

Faerenus” è l’interessante debutto dei Kormak, quintetto barese dedito ad un death/folk metal piuttosto variegato che attinge un po’ dalla scena del nordest europeo come base sonora, andando a ricordarmi in qualche occasione, soprattutto in alcuni spiragli vocali, addirittura i Kivimetsan Druidi di “Betrayal, Justice, Revenge”. I nostri, nati solo l’anno scorso, sviluppano la loro musica da una base rocciosa e aggressiva, stemperandola grazie all’inserimento di melodie intriganti e ricercate e sfruttando l’elemento folk senza esagerare, amalgamandolo al resto della proposta e aggiungendo, di volta in volta, elementi più oscuri e maligni.

Già dall’intro “Amon”, con la sua notevole carica disturbante, si capisce che le atmosfere svolgeranno un compito fondamentale nell’economia di questo “Faerenus”: la traccia, costituita da una serie di sussurri accompagnati ad un substrato sonoro inquieto e teso, mi ha ricordato per certi versi la voce fuori campo che introduceva i film del periodo d’oro di Dario Argento (Suspiria e Phenomena, tanto per dirne due), e catapulta l’ascoltatore nel mondo d’incubo dei nostri che si apre definitivamente nella successiva “March of Demise”. La partenza è insistente e scandita, dominata da un incedere melodicamente robusto e da un retrogusto classicamente death/folk, con Zaira che si occupa con una certa abilità sia della voce pulita, più liricheggiante, che del comparto vocale più duro e cattivo. L’intermezzo acustico che introduce l’ultimo quarto viene spazzato via dal ritorno degli strumenti elettrici, che si riappropriano del brano in tempo per il finale. “Sacra Nox”, complici anche l’uso del flauto e l’arpeggio più danzereccio che lo supporta, si destreggia su una base più briosa e meno incombente; l’ingresso della voce pulita aggiunge una certa solennità al tutto, anche se in un paio di occasioni mi è sembrato che si stesse esagerando col lirismo. Con l’andare del minutaggio la traccia si irrobustisce, caricandosi anche di una certa epicità latente che non mi è affatto dispiaciuta. Il rumore di passi e le voci di una taverna introducono “The Goddess’ Song”, anch’essa dallo spiccato profumo folk garantito da flauto e chitarra acustica: la canzone prende corpo quasi subito, incedendo suadente e guadagnando in arroganza grazie a una prestazione vocale bella carica di Zaira, che però perde un po’ quando passa al growl. L’intermezzo più cupo che introduce il finale dona al pezzo la giusta nota di solennità, chiudendo poi il tutto con quel senso di finta quiete che è un po’ il leitmotiv della prima parte dell’album.
Arriviamo così alla lunga “The Hermit”, della durata nominale di ventitré minuti scarsi ma che all’ascolto si rivela una malinconica e sognante ballata folk di tre minutini; e il resto, domanderete voi? Beh, qui sta la parte strana: buona parte della traccia (per la precisione fino al minuto diciannove e quarantatré secondi) è costituita dal più assoluto silenzio, interrotto solo da sporadici suoni di sirene e dal rombo di un aereo di passaggio; a questo punto parte la cosiddetta ghost track, che altro non è che la ripetizione della stessa “The Hermit” cantata stavolta nel dialetto di Molfetta. Il motivo di tale stranezza va ricercato nell’esperienza personale della bella Zaira: il minuto 19:43 rimanda all’anno 1943, data del bombardamento del porto di Molfetta (narrato alla cantante dalla nonna) da parte di aerei tedeschi, e il prolungato silenzio si prefigge lo scopo di echeggiare la stessa ansia e inquietudine provate in quell’occasione dalla parente della cantante. L’idea è interessante, ma nonostante il tributo a un episodio così particolare per la sunnominata Zaira possa anche farmi piacere per la sua valenza così personale, qui si deve giudicare il risultato e, pertanto, non posso che considerare questo silenzio come un autogol al novantesimo, capace di frustrare la resistenza di qualsiasi ascoltatore e di far crollare di colpo l’appetibilità dell’album. Per quanto interessante dal punto di vista personale, infatti, ritengo che un qualsiasi album che viene pubblicato non possa e non debba prescindere dal fruitore finale, che difficilmente (per essere buoni) resisterà un quarto d’ora per sentire una seconda volta la stessa canzone, cantata solo in una lingua diversa.
Dopo questa mia personalissima chiosa si passa alla title track, da cui è stato tratto anche un video, introdotta da una melodia distesa di flauto e chitarra acustica: “Faerenus” esplode davvero allo scoccare del minuto, creando un vortice sonoro compatto e deciso; la voce si fa arcigna (anche se perfettibile durante il ricorso al growl) e guida alla carica il resto del gruppo che non si fa pregare a starle dietro, mentre sporadici sprazzi di solennità si fanno largo di tanto in tanto. L’ultimo quarto del brano scompagina le carte per un attimo, introducendo un cambio di atmosfera e un sussurro che rimanda alla traccia introduttiva prima di tuffarsi nel finale. “Patient n°X” incede con la sicurezza soave di una ballata medievale, salvo poi lanciarsi alla carica esattamente come la traccia che l’ha preceduta. Qui, nonostante una resa strumentale interessante e delle belle scorribande ritmiche, è la voce che si perde un po’ per strada nei momenti più gutturali, recuperando però quando ricorre alla voce pulita e allo scream. Dopo la sfuriata il suono del flauto si riappropria della canzone in tempo per il finale, sfumando poi nella successiva “July 5”, anch’essa introdotta dall’ormai immancabile accoppiata chitarra acustica – flauto. La voce sofferta si insinua tra le pieghe sonore, tingendole di malinconia prima e di pathos (forse un po’ esagerato in alcuni frangenti ma molto d’effetto) poi; la canzone si carica di enfasi, divenendo così una disperata power ballad interrotta dal secco rumore di uno sparo. Chiude l’album “Eterea El”, introdotta dal tintinnio di un carillon e un sussurro stentato; la voce prende corpo pian piano, frusciando sinuosa tra le note e fungendo da ideale contraltare all’introduttiva “Amon”, mentre la fanciullesca risata finale chiude idealmente il cerchio su “Faerenus”.

Al termine di ripetuti ascolti posso dirmi soddisfatto: “Faerenus” è sicuramente un bell’esordio e, al netto di qualche sbavatura e dell’autogol di cui sopra, si rivela comunque un album solido ed ottimamente suonato che, pur senza inventare nulla nell’ormai inflazionatissimo panorama folk, potrà sicuramente farsi valere.

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