Recensione: Fallen

Di Eric Nicodemo - 16 Ottobre 2015 - 8:00
Fallen
Band: Stryper
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2015
Nazione:
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82

Quando si parla degli Stryper è impossibile non citare l’iconografia sacra, elemento fondamentale alla base del complesso a stelle e strisce. In realtà, gli Stryper non furono né la prima né l’unica entità rock a base di tematiche cristiane: basti pensare agli AD di Kerry Livgren o addirittura alle simpatie religiose di Jeff Pollard, cantante dei Le Roux, o ancora ad episodi di improvvise e inaspettate conversioni (vd. Stephen Clifford degli Icon).

Tuttavia, quello che rese gli Stryper un vero portento risiedeva nella spiazzante padronanza della melodia, accentuata dal binomio class metal/simbologia sacra, “promiscuità” che ci azzeccava poco o niente con i temi sopracitati (ok essere soldati di Dio ma bisogna ammettere che ombretti, mitragliatori e katana centravano ben poco con il cristianesimo). La capacità innata di creare ritornelli accattivanti e la duplice facciata, disposero a favore dei Nostri, che riuscirono a farsi valere nella seconda metà degli anni Ottanta tra i vari Bon Jovi, Def Leppard e Motley Crue, dediti al più canonico motto “sesso, droga & rock’n’roll”. E il nuovo “Fallen” conferma il talento degli Stryper, dimostrando che Michael Sweet e compagni sono qualcosa di più di una rock band alternativa.

Una band che sa picchiare duro con maggiore convinzione e ispirazione di altri gruppi ormai caduti nel baratro del riciclo, come testimonia la dura e solenne “Yahweh”, le cui voci svettano come imponenti cattedrali sul possente muro sonoro. I riff muscolosi non intaccano ma esaltano la grazia sacrale ed avvolgente del credo Stryper, incarnata nei versi della title track.

A dire il vero, viene difficile da pensare a tematiche bibliche quando una canzone si apre con il torvo, sabbathiano ringhio di “Pride”, almeno finché la song si stempera e viene condotta in cielo dalla paradisiaca voce di Sweet, a suo agio sia nelle parti angeliche che aggressive. In sostanza, un perfetto esempio del concetto Heaven & Hell trasposto in musica.

 

Mai sermone fu così convincente…

 

La polemica nei confronti della società terrena rimane viva e presente nelle liriche degli Stryper: “Big Screen Lies” è una chiara frecciata ai media e sfoga ancora una volta il lato lacerante degli Stryper, trainato da chitarre massicce e nervose, sui cui Michael si mantiene in equilibrio tra forza espressiva e melodia, evitando lo zucchero di “Honestly” per una miscela robusta ed amara.

L’impressione è che gli Stryper non vogliano sacrificare l’impatto per ritornelli leggeri e scanzonati da sunset strip, raggiungendo vette epiche nel chorus liricheggiante di “Heaven”, con una chitarra capace di disegnare armonie emozionanti, mai stucchevoli o prolisse. Heaven” batte “Big Screen Lies” attenuando il tiro e puntando sul lato più struggente ed emotivo piuttosto che sul groove bombastico.

Se poi volete una canzone che sappia sedurvi (scusate il termine “peccaminoso”!) come ai vecchi tempi, ascoltate come scivola nelle vostre orecchie l’energia suadente di “Love You Like I Do”, animata dallo stesso fervore dell’indimenticabile “Free”. In questo caso, si può giustamente parlare di ritrovata giovinezza, quando una canzone riesce ad emozionare conservando lo spirito del gruppo, senza farsi tentare da palesi ripetizioni. Personalmente, “Heaven” e “Love You Like I Do” sono da preferire rispetto alla collaudata ballad “All Over Again”, mollemente adagiata sul battere e elevare dell’acustica. Dopotutto, “All Over Again” ha il tipico ruolo di pausa tra i momenti più concitati o quelli più aulici, senza nulla togliere e nulla aggiungere di memorabile al platter (come fece “The One” in “No More Hell To Pay”).

 

 

Visioni sacre, miracoli e… rock’n’roll?!

 

Tra un riferimento biblico e l’altro, Sweet confessa le proprie “nere” simpatie con la cover di “After Forever” dei Black Sabbath (senza dubbio un buon rifacimento ma noi preferiamo la carica luciferina dell’originale…).

Il tempo di una cover e i Nostri risalgono la china con il rock impaziente diTill I Get What I Need”, sempre alimentato dall’ugola di Sweet in sella alle chitarre sfreccianti.

Chiamatelo come volete, christian rock o white metal, ma ciò che conta è godersi le stilettate hard’n’heavy di “Let There Be Light”, sorretta da una cascata di voci celestiali e disperate, o farsi trascinare dall’inarrestabile richiamo di “The Calling”, vento di note, chitarre e grinta che soffia forte tra i capelli. Espressioni troppo auliche? Beh, almeno non c’è da preoccuparsi perché è tutto perfettamente contestualizzato, sentire per credere…

“King Of Kings”, infine, è l’inno ideale per chiudere il sipario in “sommo gaudio”: l’osanna del coro (che porta alla mente il celebre film hollywoodiano) spalanca orizzonti storici e drammatici, dove la chitarra sa mordere in fiammeggianti incursioni, sfidando in duelli l’ascia gemella.

La closer riassume il dualismo ritmico del platter, diviso tra composizioni veloci, cadenzate e in due tempi (a differenza del precedente disco e di “Murder By Pride”, il primo incentrato sulla frenesia mentre il secondo sul downtempo).

 

Resurrezione

 

In “Fallen” il nuovo corso degli Stryper giunge a completa maturazione: il songwriting non ha perso il gusto per la melodia e si è evoluto in un hard’n’heavy pulsante e solenne ma non per questo meno emozionale (a riguardo, confrontate il connubio riff uncinante/voce armoniosa di “Pride”), senza le concessioni pop di “Always There For You”. Tuttavia, non fraintendete: il passato vivrà per sempre finché ci saranno cori come quelli di “Love You Like I Do”.

Per il resto, posso dire che “Fallen” mi ha fatto rivivere sensazioni simili a quelle provate ascoltando “Soldiers Under Command”: ammetto che all’inizio ero reticente, per non dire un po’ imbarazzato, al pensiero di ascoltare una band che usasse tematiche e simbologie “inappropriate” al panorama rock e al suo spirito spesso trasgressivo e ribelle. Eppure, come successe al tempo, ammetto di essere stato nuovamente smentito e mi accorgo, per l’ennesima volta, che l’ottima musica valica ogni pregiudizio e, alla fine, ciò che importa sono le emozioni che ha fatto provare, il vero valore e l’ultimo discriminante di ogni esperienza musicale. Una volta tanto, possiamo tranquillamente lasciarci dietro ogni preconcetto. Non ve ne pentirete, ve lo assicuro.

Eric Nicodemo

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