Recensione: Falling Home

Di Roberto Gelmi - 10 Novembre 2014 - 14:00
Falling Home
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2014
Nazione:
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73

I Pain of Salvation, anche dopo il controverso dittico Road Salt OneRoad Salt Two, restano una band difficile da liquidare. Un esordio con il botto, Entopia, poi tre capolavori; dopo l’azzardo totale di BE, il sequel di The Perfect Element nel 2007, infine, i due citati dischi di rottura. Il loro sound è passato dal progressive metal tout court a sonorità imparentate con i Seventies (vedasi attuale moniker in copertina), anche, ma non solo, per evitare il tunnel della produzione perfetta e impersonale che da qualche tempo intacca la qualità della proposta metal.
Per rilanciare il suo combo, l’istrionico Daniel Gildenlöw (nel frattempo sempre quinto membro dei Transatlantic) punta su un’idea nata in modo gratuito: la voglia di mettersi in gioco, nel riproporre in studio la setlist acustica, suonata per puro caso durante una data tedesca del tour 2012, e che fu impossibile registrare.
Il mastermind scandinavo non manca, altresì, di collegare idealmente Falling Home al bel live unplugged del 2004 12:5, che tutti ricordiamo per la presenza di un vero clavicembalo on stage.
Voglia di recupero del passato ed enfatizzazione del lato ricercato/maturo dei Pain Of Salvation; al contempo, voglia di superare l’ennesima prova ardua, fuori dei confini metal e rock. Tutto con la giusta sprezzatura, presente non solo nell’artwork e nel titolo “decadente”, ma nelle parole dello stesso Gildenlöw: «One of my mottos has always been that I want to hide the machinery under the hood, so to speak» (Uno dei motti è sempre stato quello di celare le apparenze, giusto per capirci).
Il risultato è un album cullante, ben arrangiato e retrò, soffuso di tinte jazzy e la solita pazzia sbarazzina dei genialoidi svedesi, che si collega, altresì, coerentemente con Road Salt Two e non resta un full-length anodino, o, ancor peggio, isolato nella discografia del combo.

E come potrebbe? In scaletta troviamo un brano da Entropia, uno da Remedy Lane, tre da Scarsick, uno da Road Salt One e due da Road Salt Two: non è il meglio della discografia degli svedesi, si prediligono gli album più recenti, però ciò che emerge è un ritratto veritiero della band così come si presenta oggi.
Oltre ai brani riarrangiati c’è spazio anche per due cover atipiche (Dio e Lou Reed, la stranissima coppia!) e un inedito in calce al platter.
Scaletta variegata, dunque, che inizia con “Stress“, un classico da Entropia, con i suoi tempi dispari e incedere sdrucciolo; prosegue con il singolo “Linoleum” e la recente “To The Shoreline”. La cover iper-soft di “Holy Diver” ha un che di blasfemo (il buon Ronnie James si sta quasi sicuramente rigirando nella tomba), con momenti reggae e totale dissociazione testi-musica. Dopo un brano tratto ancora dal disco del 2011 e “Chain Sling“, un cammeo da Remedy Lane (non poteva mancare all’appello!), è la volta di una toccante rivisitazione. Parliamo del classico di Lou Reed, “Perfect Day”, ballad ormai “quarantenne”, ma intramontabile, con i suoi testi volutamente allusivi che nessuna interpretazione potrà mai sviscerare in toto; una canzone, altresì, famosa per essere inclusa nella colonna sonora del film Trainspotting, pellicola di culto per gli sfattoni intelligenti di ogni tempo. Daniel canta in modo encomiabile, il pathos tracima nel finale in crescendo.
Il finale di disco è notevole, con tre pezzi estratti da Scarsick (album troppo sottovalutato), i cui testi caustici vengono ancor più rinvigoriti dai toni dimessi degli arrangiamenti. L’inedita title-track, invece, si rivela un buon brano, ma niente più: chitarra acustica e intrecci vocali poetici.

Falling Home è un album atipico, che si lascia ascoltare e riesce a creare un’atmosfera accogliente e da serata intellettuale. Certo, non è un capolavoro e non rilancia i Pain Of Salvation nell’olimpo che fu, ma fa ben sperare nel futuro. Convince, infatti, l’affiatamento e l’apporto corale dei singoli componenti del gruppo. Il lato eclettico e androgino del singer svedese resta, tuttavia, il valore aggiunto del combo, che non avrebbe ragione d’esistere senza il suo fondatore.
Se lo stesso Gildenlöw, infine, con lo sguardo fisso al presente, pensa che le canzoni così riadattate siano migliori delle versioni originali («I prefer these new versions to the original versions. Part of the reason for that is probably because this is where I’m at right now»), allora possiamo fidarci di lui e suggerire l’acquisto del platter.

 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

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