Recensione: Fear of the dark

Di Paolo Beretta - 18 Febbraio 2003 - 0:00
Fear of the Dark
Band: Iron Maiden
Etichetta:
Genere:
Anno: 1992
Nazione:
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85

Fear of the dark non è un album normale in quanto, oltre ad essere un gran disco, rappresenta un punto fondamentale della storia degli Iron Maiden; una delle band più grande di tutti i tempi nell’ambito dell’Heavy Metal classico. Quando si giunge ad un crocevia importante, come questo ( ultimo album di Bruce che con il suo addio, momentaneo, sancirà la crisi vera del gruppo ), la cosa fondamentale da fare è guardare indietro e ripercorrere brevemente la loro storia.

I Maiden con il loro omonimo debut album al tritolo nel 1980 sconvolsero il mondo dell’Heavy. Non lasciarono il tempo ai fan di assaporare in fondo quel disco che l’anno successivo uscì Killers, tanto per ribadire che il debutto non era stato frutto del caso. Nel 1982 gli Iron raggiunsero l’apice: riuscirono con facilità disarmante a cambiare Paul Di anno ( il cambio di vocalist è sempre un passo molto delicato e Blaze insegna ) con un altro singer incredibile Bruce Dickinson e a dare alla luce un lavoro fantastico che risponde al nome di The number of the beast. Ed è da questo punto che i Maiden stupirono; tutte le band raggiunto il successo globale si sarebbero lasciate andare ma gli Iron con il poker Piece of mind, Powerslave, Somewhere in time e Seventh son of a seventh son diventarono, giustamente, immortali e sinonimo di garanzia assoluta. Pur non discostandosi mai dall’Heavy più puro, riuscirono a non risultare mai banali proponendo sempre una sfaccettatura diversa del loro sound sempre e comunque potente e maledettamente metallico. Bisogna aspettare il 1990 e l’uscita di Adrian Smith ( chitarra ), con relativo innesto di Janick Gers al suo posto, per intravedere una crepa nella discografia dei Maiden ( No prayer for dying ). Nel 1992 arrivò l’attesissimo Fear of the dark che aveva il compito di togliere le perplessità nate dal lavoro precedente. Fear è un grande album che tuttavia, a mio modestissimo parere, non riesce a reggere il confronto con i primi sette lavori della “vergine di ferro”.

Ad aprire le danze ci pensa Be quick or be dead, opener davvero potente dove la voce di Bruce graffiante e penetrante ci dà il benvenuto. I ritmi dettati da Nicko e Steve sono veloci e non lasciano scampo così come il muro metallico eretto dal duo Gers / Murray ( molto migliorati rispetto a No prayer for dying ). In From here to eternity il tempo diminuisce restando comunque accattivante. Le strofe scorrono senza forzature per sfociare nel coro ben cantato dalle backing voclas che sembra essere fatto apposta, nel break centrale in particolare, per la sede live. Afraid to shoot strangers è un capolavoro che si può dividere in due parti. Nella prima un impercettibile, quanto grandioso, lavoro di basso, batteria e chitarra accompagna la voce di Bruce; nella seconda la traccia si anima con assoli melodici e lenti e altri, nel cambio di ritmo, più veloci e taglienti. Con Fear is the key si percorrono atmosfere strane, il ritmo è molto cadenzato, l’ugola di Dickinson riesce a distendersi mentre assoli e riff particolari si imprimono a fuoco nella mente dell’ascoltatore. Childhood’s end dopo un breve intro di chitarra comincia mettendo in evidenza il basso martellante di Harris che detta un tempo trascinante ben seguito da assoli melodici e veloci che arriscono questo pezzo piacevole, ma non eccezionale. Di ben altra fattura Wasting love, song struggente grazie alla prova maiuscola di Bruce che emoziona sia nelle tristi strofe che nel chorus dove mette in mostra la sua non comune estensione vocale. Grandioso il cambio di ritmo che con solos guitar sporchi e metallici rende la track davvero stupenda. The fugitive è trascinante e rende alla grande l’idea di una fuga pazza verso la libertà grazie ad un superbo lavoro di riffing delle due chitarre gemelle, sempre in primo piano. Con chains of misery il sound rimane molto Heavy. Il chorus, seppur breve, è veramente riuscito per la semplicità e immediatezza. Segue The apparition dove la voce di Dickinson prosegue a strappi, quasi rabbiosi, seguendo il ritmo cadenzato dettato dal duo McBrain / Harris e sostenuto da potenti riff. Judas be my guide è una song dalla struttura semplice e dall’altissimo potenziale commerciale grazie alle melodie curatissime e al coro studiato che però viene ripetuto un po’ troppe volte. Weekend warrior piace per l’improvvisa e riuscita alternanza tra un sound leggero ( arpeggio ) e un altro decisamente più Heavy ( riff ). Canzone non fondamentale ma indubbiamente di piacevole ascolto. A chiudere il disco ci pensa la storica title track; semplicemente stupenda. Un leggero lavoro di chitarra introduce la prima storica strofa appena sussurrata da Bruce. Poi comincia lo spettacolo con l’entrata violenta di basso, batteria e guitars che rendono il brano potente e coinvolgente. Le strofe volano e quasi non si staccano dal coro. A rendere la song immortale ci pensa il break centrale dotato di un assolo da brivido, maledettamente lungo e metallico.

Come ho già detto questo non è il migliore disco degli Iron ( solo perchè i primi sette sono irraggiungibili ) ma ha rappresentato un passo in avanti rispetto a No prayer for dying. Un gran disco che comunque non può mancare nella collezione di ogni metallaro che si rispetti.

1. BE QUICK OR BE DEAD

2. FROM HERE TO ETERNITY

3. AFRAID TO SHOOT STARNGERS

4. FEAR IS THE KEY

5. CHILDHOOD’S END

6. WASTING LOVE

7. THE FUGITIVE

8. CHAINS OF MISERY

9. JUDAS BE MY GUIDE

10. WEEKEND WARRIOR

11. FEAR OF THE DARK

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