Recensione: Festival

Di Alessandro Zaccarini - 2 Marzo 2010 - 0:00
Festival
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Anno: 2010
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Jon Oliva, il pianista dalle mani filosofali, ha di nuovo appoggiato le sue dita sui tasti d’avorio per il quarto episodio della saga Jon Oliva’s Pain, progetto che dal 2004 ha saziato – insieme alla Trans-Siberian Orchestra – la sete di Savatage del pianeta Terra. Non sono la stessa cosa e mai potranno esserlo, senza Criss Oliva. Eppure, per ovvie ragioni i Jon Oliva’s Pain sono la musica che più somiglia ai cari vecchi Savatage, quelli di Streets, i preferiti di Jon. Piano sempre in pompa magna e un lavoro egregio di Matt LaPorte che ha saputo raccogliere l’eredità lasciata tragicamente da Christopher Michael Oliva nell’ottobre 1993. E migliora, disco dopo disco, live dopo live.

Lo avevamo sospettato, ora è chiaro: i Jon Oliva’s Pain sono un viaggio nella follia del loro padre, una corsa schizofrenica nel labirinto cerebrale dove tempeste di idee generano quello che da più di 20 anni ascoltiamo, talvolta a bocca aperta, nascere dalla mente di questo signore.

‘Global Warning’ aveva preso una strada che questo Festival incupisce e sperimenta ancora di più. Di tutto ciò che Jon Oliva ha composto nella sua vita, Festival rappresenta uno dei punti più lontani: le sperimentazioni si accavallano l’un l’altra senza perdere quella componente classica che è (e per chi scrive, deve) essere il minimo comune denominatore in questo genere. Il suono di Fetival si fa progressivo, poi torna a cavalcare i tempi comuni, poi sale in sella al proprio destriero fantasma e si lancia in cavalcate ritmiche come quelle che aprono The Evil Within o nella marzialità di Death Rides a Black Horse.

La parte centrale del disco, il cuore dell’album, quella più profonda e lontana dalla realtà, è forse quella ancora più alienata, in preda all’insania paranoica di Oliva. In Afterglow c’è tantissimo, dai Sava di Dead Winter Dead a quelli di The Wake of Magellan, fino al mai sentito. Winter Haven nasce come fosse un episodio natalizio della Trans-Siberian Orchestra per poi svincolarsi e liberare la propria natura. Quasi 8 minuti che si divincolano, aggrediscono, si arrabbiano e crollano tra un cambio d’umore e l’altro. Una stravaganza, quasi un ciclopico capriccio che forma, insieme alla title track, un duo di meraviglie di eccesso e sconsideratezza.

In avvio di Festival troviamo le musiche di fiera di Colin Macnab, una citazione assolutamente non velata per pagare un tributo doveroso a una delle band preferite di Jon Oliva: i Queen. Le melodie dello scozzese Colin Macnab non sono infatti un deja-vu (per infilarci un’altra citazione di May e soci) ma anzi esattamente le stesse che aprono Brighton Rock, opener di un capolavoro assoluto della storia della musica come ‘Sheer Heart Attack’. Il preferito in assoluto di chi scrive. Il continuo della title track non può che essere un tripudio di geniale irrazionalità, tra riff progressive e tastiere che cercano di divincolarsi dalle sezioni ritmiche, fuggendo in sottofondo inseguite dal resto delle linee melodiche fino all’arrivo della chitarra solista di LaPorte, che detta un’amnistia che costringe i colleghi a ritornare nuovamente oridnati, nei ranghi fino al nuovo verso, quando con un guizzo i sintetizzatori si svincoleranno nuovamente dal giogo dei tempi. 

Quasi stremato, dopo tanto tormento, il disco si lascia cadere, abbandona i tempi frenetici e si fa cullare: se c’è un campo in cui Jon Oliva è il più venerabile dei maestri, quel campo sono le ballate, che spesso gradisce posizionare in chiusura di disco, come in questo caso. Signore indiscusso del genere, con composizioni di largo respiro, fatte di piano, power-chord ariosi, chitarre acustiche e lead circolari, l’omone di New York City ne ha fatta un’altra delle sue: Now. Sulla scia di Believe o When the Crowds are Gone, se volete citare i capolavori, Fly Away, se vogliamo restare tra gli episodi dei Jon Oliva’s Pain… con la differenza che questa volta ci sono anche gli archi ad arricchire perimetro e sagoma delle armonie.

Che dire di questo signore che ancora non sia stato detto? Nulla. Jon Oliva è una personalità tra le più preziose che il metal possa vantare oggi, un uomo in grado di regalare quelle emozioni sempre più rare, di comporre e interpretare dischi veri, vivi. Incredibilmente vivi, che oggi mancano. Di staccarsi dal mucchio, di osare senza scadere nel puro esercizio o nell’esplorazione forzata. Di distinguersi per i meriti di oggi, dimenticando il passato, uscendo dall’ombra dei suoi vecchi successi e dischiudere la mente per lasciare correre liberi i purosangue della sua follia musicale.

Alessandro ‘Zac’ Zaccarini

Tracklist:
01. Lies
02. Death Rides A Black Horse
03. Festival
04. Afterglow
05. Living On The Edge
06. Looking For Nothing
07. The Evil Within
08. Winter Haven
09. I Fear You
10. Now

Line up:
Jon Oliva (vocals and keyboards)
Matt LaPorte (guitars)
Tom McDyne (guitars)
Kevin Rothney (bass)
Christopher Kinder (drums)

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