Recensione: Fight To Survive (Reissue)

Di Eric Nicodemo - 28 Novembre 2014 - 8:15
Fight To Survive (Reissue)
Band: White Lion
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2014
Nazione:
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85

Cosa vi spinge ad affrontare la recensione di un disco, facendovi spendere ore preziose del vostro tempo libero? Senza indugi, molti indicheranno nella passione per la musica la reale motivazione a questo “gesto”. Talvolta, è semplicemente la voglia di condividere un album amato l’input che ci sprona alla stesura di una review, tentando di sottrarre al dimenticatoio quel vecchio LP (o cd) polveroso.

Questa è una ragione più che sufficiente per riesumare “Fight To Survive”, debutto degli americani White Lion, combo formato dal virtuoso chitarrista Vito Bratta e da Mike Tramp, singer di origini danesi. D’altronde, non è certo un mistero che il gruppo venga ricordato essenzialmente per i singoli estratti da Pride (1987), l’apice commerciale del gruppo. A parte l’indiscutibile qualità di “Pride”, le ragioni dell’“impopolarità” di “Fight To Survive” vanno innanzitutto ricondotte alla pessima distribuzione del disco, che decretò la sua release in sordina.

In secondo luogo, l’album si distingue per una connotazione più heavy e meno mainstream rispetto all’erede: infatti, come lo stesso Tramp ammise, il disco contiene alcune delle canzoni più cupe del complesso, che danno un tocco maturo all’intero lavoro. La cosa interessante è che la ruvidezza di fondo viene sempre fusa con una propensione innata per la melodia, offrendo non solo potenza ma anche un occhio di riguardo per il lato più aggraziato del rock’n’roll.

E così, l’arpeggio di “Broken Heart” risuona d’infinita tristezza su uno sfondo desolante, percorso dai brividi dei synts, mentre echeggia e si affianca il poderoso riff di Vito. Una luce si accende e il combattimento prende vita al grido di un cuore infranto, nel coro segnato dal dolore ma che arde come un fuoco inestinguibile. La pioggia di Vito discende rapida e acuta, mentre il dramma raggiunge l’apice negli ultimi vibrati.

Anche quando il tentativo di scalare le classifiche è palese, l’estro musicale è spontaneo e libero dall’ottica commerciale: la corsa di “Cherokee” diventa una fuga verso la libertà in una sconfinata prateria, che prende forma nell’inno avvolgente del coro, fatto da una linea di passione irresistibile che non si può spezzare. Vito narra questa nuova battaglia toccando e penetrando le nostre fragili emozioni solo con le corde di una chitarra, illuminata dalla bellezza racchiusa nel suo struggente assolo. Un highlight di assoluto valore nell’intera discografia del gruppo e prima ancora del melodic rock più emotivo.

La malinconia e l’aggressività percepita dai musicisti durante le registrazioni, avvenute in un rigido e deprimente febbraio a Francoforte, è sempre imbrigliata dalla ruvida produzione, che canalizza e dirige la rabbia degli White Lion contro “pericolose” ingerenze pop, evitando di scadere nel melenso e nei toni frivoli e sorridenti.

E così la title track da un confuso, velocissimo vortice di note, assume i contorni di un incedere sicuro e determinato come le intenzioni del guerriero da strada, allegoria dell’uomo moderno. La chitarra scompare e la sessione ritmica crea un’atmosfera d’attesa, di penombra nel cuore di chi aspetta l’ora del confronto con la triste realtà, nella cruda vita di una metropoli, dove la coscienza umana è solo un ricordo annerito dallo smog soffocante. In questo vuoto, la voce risuona penetrante urlando la dura legge di questa giungla di cemento: “Fight To Survive!”. Vito inietta accordi brevi ma incisivi mentre crea una tela magnifica di assoli, che da grezzi diventano la voce stessa della sofferenza.

In questa landa, il Leone Bianco vaga chiedendo e chiedendosi qual è la sua meta. Una domanda che dovrebbe farci impazzire ed invece suona come un dolce tormento in “Where Do We Run”.

Se, dunque, la meta è incerta, non lo è il luogo delle nostre speranze e dei nostri dolori: la città rimane il palinsesto ideale dove inscenare i rischi che comporta il duello tra l’uomo e la società. E così, dopo il soave dubbio di “Where Do We Run”, ritorniamo nella giungla d’asfalto con “In The City”, accompagnati da suoni freddi ed aspri, in cui riecheggia solo il main vox. In questo panorama si innalza il coro guidato da Tramp, accorato interprete più che virtuoso del canto. Ad un tratto l’atmosfera si incendia e Vito sprigiona rabbia ed accanimento snodando incursioni convulse, di matrice heavy, che perseguitano l’ascoltatore.

E il lato più heavy continua a spadroneggiare in “All The Fallen Men”, dipinta dalle tinte scure di un accordo plumbeo, minaccioso quanto un nero mastino. In questo buio sonoro il grido del soldato risuona ed assume le sembianze di un refrain ammaliante, uno squarcio di melodia in contrasto con il riffing duro, che lancia una scarica elettrica ai nostri sensi intorpiditi.

Il set si amplia e discendiamo nelle spire diaboliche di “All Burn In Hell”. L’inferno personale degli White Lion si redime nella melodia avvincente delle liriche e raggiunge la salvezza nella regale disperazione infusa da Bratta al guitar work.

Il girone non si chiude ma prosegue affondando gli artigli metal di “Kid Of 1000 Faces”. Il refrain conserva una punta di armonia energizzata dal contagioso giro di basso, fatto di puro, incandescente metallo. Un marchio impresso a ferro e fuoco sul motivo di “Kid Of 1000 Faces”, che può indulgere nella melodia solo il tempo di un fugace, splendente assolo.

Gli White Lion non vogliono però sedimentarsi e sfoderano in “El Salvador” un velocissimo botta e risposta tra il plettraggio argentino della classica e gli acuti della chitarra elettrica. Presto il dialogo è interrotto dal tellurico rifferema, che scuote la canzone con epicità e potenza, quasi preannunciasse la discesa del bieco giustiziere. Il cuore pulsante della song diventa il chorus, in bilico tra un sound dalle tinte ruffiane e la fierezza propria di un inno eroico ed avventuroso.

Mentre ci incamminiamo verso la nostra ultima meta, l’atmosfera diventa rarefatta e intima sulle note del piano: sulle liriche, ammantate da una dolce malinconia, si aprono le strade di “The Road To Valhalla”. Il ponte per il Valhalla si costruisce sul lento incedere di Bratta, che eleva la chitarra su accordi trascinati ed eleganti, man mano che ci avviciniamo alle mura innevate di Asgard.

La chiusura emblematica di “The Road To Valhalla” riassume i tratti distintivi di questo album, fatto di heavy rock accessibile ma dalle tematiche a volte crude ed oscure, lontano dai giocosi vezzi alla Bon Jovi o dall’irriverenza animalesca dei Motley Crue. Forse, fu proprio la mancanza di un appeal radiofonico a decretare il mancato ingaggio da parte dell’Elektra, che perse interesse nel combo poco prima della pubblicazione di “Fight To Survive”. Scaricati dalla label, Vito, Mike e compagni trovarono un’ancora di salvezza nella sezione giapponese della JVC Victor, che decise di rilasciare il loro debutto. Ironia del caso, da quel momento, si venne a creare un certo interesse un po’ dappertutto attorno al monicker White Lion, dimostrando come l’Elektra si era sbagliata. Davanti ai nostro occhi, “Fight To Survive”, unicum della discografia del Leone Bianco, rappresenta molto di più che un semplice esordio: la vittoria di un songwriting spontaneo e sincero sui contorti meccanismi del business.

Eric Nicodemo

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