Recensione: Flames OF Eternity

Di Marco Tripodi - 22 Febbraio 2019 - 8:00
Flames Of Eternity
Band: Imperia
Etichetta:
Genere: Gothic 
Anno: 2019
Nazione:
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64

Gli Imperia (olandesi, non liguri…) li conobbi sin dai tempi del loro – per me – sfolgorante esordio. “The Ancient Dance Of Qetesh” (2004) usciva in un momento storico nel quale il symphonic metal con cantante donna e un po’ di pizzi e merletti gotici era discretamente avviato e riscuoteva interesse e consensi (i nostri Lacuna Coil, per dire, erano già al quarto album ed avevano pure cominciato a cambiar pelle indirizzandosi verso lidi più modernisti e trendy chic). Non era dunque scontato che muovendosi su territori piuttosto frequentati gli Imperia riuscissero a produrre qualcosa di interessante e capace di farsi notare in mezzo a tanti competitor. Eppure, vuoi per l’impressionante range vocale della front-woman Helena Iren Michaelsen, vuoi per l’intelligenza di andarsi a cercare sfumature diverse dagli altri e dal solito, aggiungendo sapori, colori ed odori di stampo orientale, il suddetto “Qetesh” fu una piacevolissima novità (perlomeno per il sottoscritto).  Tre anni dopo fu la volta di “Queen Of Light” (2007), lavoro che qualitativamente teneva testa al primo, anche se fatalmente perdeva per strada l’elemento sorpresa, unitamente al flavour etnico che aveva caratterizzato il suo predecessore. Nei due album a seguire, “Secret Passion” (2011) e “Tears Of Silence” (2015), gli Imperia si normalizzavano ulteriormente, la Michaelsen si attestava su registri canori meno estrosi e peculiari, e nel complesso il gruppo diventava uno dei tanti gothic metal act, senza specificità tali da farlo balzare agli onori della cronaca, nonostante la cura sempre professionale del prodotto, sia in termini di tecnica esecutiva, che di produzione e packaging.

A quattro anni di distanza, uno iato dovuto anche alle annose traversie legali occorse alla leader della band (chi la segue sui Social è stato precipitato negli incessanti post di denuncia riguardanti presunti maltrattamenti ai danni della figlia da parte di autorità locali, si parla addirittura di “torture” e “rapimento”…), arriva il nuovo “Flames Of Eternity“, presentato dalla Michaelsen come l’album più intenso emotivamente mai realizzato dagli Imperia. Ed a livello testuale è senz’altro così, poiché inevitabilmente la biondissima singer non rinuncia a trattare storie personali, quasi sempre dolorose e segnate da profonde cicatrici. Il songwriting, da un punto di vistra strettamente musicale, si rivela abbastanza in linea con la seconda metà di carriera degli olandesi, il che significa un gothic metal molto arioso, poggiato su ritmiche cadenzate, puntellato da magniloquenti interventi di keyboards, il tutto ben eseguito e privo di sbavature ma, nella sostanza, anche ordinario e piuttosto telefonato. Manca oramai del tutto l’imprevedibilità, la bizzaria, persino quella certa pacchianeria che aveva segnato l’esordio della band, regalandole però un’identità chiara e netta. Ad eccezione di “Blinded” e “My Guardian Angel“, nelle quali la Michaelsen esce minimamente dal seminato, la valchiria di origini norvegesi si limita ad esibire la sua voce calda, sicura ed affidabile ma senza guizzi interpretativi. Forse nella necessità di tradurre nel modo più onesto, genuino e diretto possibile le sofferenze emotive dei suoi testi, il cantato di “Flames Of Eternity” marcia dritto, lineare (troppo) e con pochi fronzoli, senza excursus operatici o deliri “psicotici” (sia detto in senso buono), sentire “The Calling” da “Queen Of Light” per avere un termine di paragone, o anche la stessa title track di quell’album.

Non si può parlare di delusione per questo quinto capitolo discografico, poiché gli Imperia sono una band solida che non credo fallirà nel suo tentativo di irretire gli amanti delle sonorità prettamente gotiche e sinfoniche; “The Scarred Soul“, “Fear Is An Illusion“, “Unspoken Words“, “Otherside” o le su menzionate “Blinded” e “My Guardian Angel” sono canzoni valide anche se non stratosferiche. Semmai l’amaro in bocca deriva dalla consapevolezza del potenziale degli Imperia, per i quali avrei immaginato ben altra scintillante carriera all’indomani della doppietta pubblicata nel primo decennio dei 2000. Oggi i nostri sono più interessati a malinconiche riflessioni esistenziali che all’esplorazione di luoghi mitici e fiabeschi (un flebilissimo respiro si avverte ancora in “The Ocean” ad esempio), ed in qualche misura l’impeto narrativo ed immaginifico ne risente, standardizzandosi e perdendo – a mio modesto parere – brillantezza e profondità, senza nulla togliere alle tribolazioni ed ai travagli espressi anche con una certa delicatezza dagli Imperia attraverso la propria musica.

Marco Tripodi

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