Recensione: For The Journey

Di Roberto Gelmi - 19 Settembre 2014 - 14:08
For The Journey
Band: Threshold
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2014
Nazione:
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75

Decimo studio album per una grande metal band, con più di un quarto di secolo alle spalle. I Threshold nascono nel 1988 e debuttano con il capolavoro Wounded Land nel 1993, un anno dopo Images And Words dei Dream Theater. La strada verso il mainstream prevede, poi, il classico Psychedelicatessen (1994) con il mitico Glynn Morgan al microfono, e il disco del successo definitivo, Extinct Instinct del ‘97. Gli anni che vanno dal 2001 al 2007 sono i migliori del combo, che realizza cinque platter con il compianto cantante Andrew McDermott (francamente, difficile dire quale album della cinquina sia il più meritevole).
Dopo l’uscita di scena del mai troppo compianto singer, un lustro di silenzio e la rinascita con March of Progress nel 2012, Damian Wilson redeunte. Ora la line-up sembra essersi consolidata (quattro quinti della band suonano assieme dal 2004) e quello che ci troviamo di fronte è l’ennesimo album di classe, con poca innovazione, vero, ma che, pur se a un primo approccio può risultare una delusione, con ascolti ripetuti cresce per apprezzabilità.

L’artwork è, altresì, evocativo come da tradizione degli inglesi e denota un platter curato ed elegiaco, che prende avvio, tuttavia, senza mezze misure. Dopo fugaci secondi introitali “Watchtower on the Moon” (il titolo strizza l’occhio alla technical metal band texana, attiva negli anni Ottanta?) attacca abrasiva e potente. Solita produzione inconfondibile dei Threhsold, inserti di voce robotica e scelte vincenti delle armonie e dei synth, opera di Richard West. Siamo vicini per certi versi a Critical Mass, ma la voce di Damian Wilson (già cavaliere medievale per gli Ayreon), anche se regge il confronto con quella di McDermott, punta più sulla pulizia che sul pathos. A metà brano è la volta del primo e gustoso duello tra Groom e West: niente di nuovo diranno i più critici; a nostro giudizio, invece, si è di fronte a un manifesto di coerenza con il passato, da parte dei fondatori del gruppo anglosassone.
Ritmiche smagate nell’incipit di “Unforgiven”: si respira una livida aria metallica, poi compare un bridge etereo (non privo di qualche inserto di musica elettronica) in chiusura del primo minuto. Traccia dal minutaggio fotocopia a quello dell’opener, “Unforgiven” vive di strofe tirate e un refrain catturante e disperato, che non stonerebbe, ovviamente reinterpretato, in un album degli Evergery. Al min. 2:30 il timido Steve Anderson regala un bello stacco di basso, poi si fa largo una schiarita rinfrancante, come da regola nel sound desultorio degli inglesi. Di certo evocativi i «Let me go» ripetuti nel finale in fade-out.

Non può mancare una suite in un album dei Threshold: di solito sono in chiusura di platter e sono capolavori. In questo caso ci troviamo a metà full-length, ma la composizione è comunque d’applausi. “The Box” (titolo tanto conciso quanto enigmatico) inizia su toni mesti, uno spirare di vento, chitarra acustica, e poi la voce di Wilson, accompagnata dal pianoforte di West (torna alla mente la toccante ballad “Avalon” del 2002). Sul finire del secondo minuto trova spazio un sample isterico, una voce come di leader impazzito, poi torna il metal, con palm mute, dirty organ, il ritratto ideale del combo inglese! Il basso pulsa, le chitarre si fanno impalpabili, ci sono alcuni sentori dei vecchi Opeth, infine brilla un ritornello da cantare a squarciagola, con i soliti accenti di tastiera trascinanti. Al min. 6:16 Wilson regala un buon acuto; i due seguenti minuti strumentali sono la summa della fastosità dei Threshold, con assoli, rullate di batteria, unisoni e imprevedibilità totale. La traccia si chiude in circolarità, dopo alcune riproposizioni del refrain, con note di pianoforte e, aggiunta gradita, una coda strappalacrime (ascoltare per credere).
Dopo una simile canzone, si torna su lidi meno ambiziosi: “Turned to Dust” è il brano più corto in scaletta, con un piglio bluesy e ritornello per niente impegnativo. West non sbaglia un’armonia che sia una e la traccia scorre senza problemi, come sabbia in una clessidra.
Lost in Your Memory” si apre con uno dei synth più solari mai azzardati dai Threshold, seguito da parti di pianoforte. Belli i controcanti alla fine del quarto minuto, ma il pezzo è senza troppa genialità complessiva.
Ritmiche thrash e basso oscuro all’avvio di “Autumn Red”, poi il clima si acquieta con un alternarsi di chitarre semiacustiche e metal. Il ritornello è uno dei più belli dell’album (Wilson è esemplare), con rime semplici da ricordare. Sul finire del quarto minuto staglia un bel crescendo.
Siamo in chiusura di platter: «Welcome to The Mystery Show» canta Wilson. Il penultimo brano in scaletta parte svogliato e benighted, però si dischiude prepotente nel refrain. Il solo di Groom sul finire del terzo minuto è da manuale, poca tecnica e tanto sentimento; la sezione che segue, con pianoforte affettato, è fiabesca, poi tutto muore nel finale circolare.
Intro da colonna sonora filmica per la conclusiva “Siren Sky”, tra i pezzi lodevoli del lotto. West compie un lavoro imprescindibile in fase d’arrangiamento, mentre la “spalla” Pete Morten alle ritmiche sciorina svisate sapide. Il ritornello è tra i migliori mai composti dagli inglesi: una melodia ficcante, un tema facile di tastiera e, come per magia, siamo di fronte a un pezzo memorabile.

Ottima anche la bonus track, “I Wish I Could“, canzone quadrata e trascinante da non perdere, con un Wilson a tratti istrionico, tanto palm mute e synth à la Critical Mass, refrain zuccheroso e finale laconico.

È tutta qui la decima fatica in casa Threshold: nove brani, di cui otto sui cinque minuti circa, e una suite da dodici. Come negarlo?, si avverte una certa ripetitività, in fase di composizione e nelle scelte di produzione. La coppia Groom e West resta fedele ai Thin Ice Studios e si affida a Mika Jussila (Therion, Amorphis) per il mastering del disco, ma ciò non toglie che For The Journey si lasci riascoltare con piacere. Merito dell’aura di raffinata decadenza con cui gli anglosassoni riescono sempre (fino a oggi) ad ammantare ogni loro full-length, che vive di una sapiente alternanza di atmosfere e stati d’animo.  
Forse due tracce come “Turned ro Dust” e “Lost in Your Memory” possono essere considerate delle skip-song, ma complessivamente l’album è davvero coeso e ben concepito, più di March of Progress. Sono finiti i tempi d’oro, ma una nuova era argentea è in corso per i Threshold, che, per fortuna, non hanno ancora varcato la soglia della mediocrità.
 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

 

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