Recensione: Forever

Di Daniele D'Adamo - 17 Gennaio 2017 - 12:00
Forever
Band: Code Orange
Etichetta:
Genere: Metalcore 
Anno: 2017
Nazione:
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80

2014.

È l’anno decisivo, per i Code Orange, poiché decidono di cambiare nome dall’originario Code Orange Kids e di mettersi a fare sul serio. Tanto da dare alle stampe un nuovo debut-album, “I Am King”, e di arrivare quindi al contratto discografico con una major planetaria  come la Roadrunner Records per pubblicare il secondo capitolo, “Forever”. E, soprattutto, di svoltare dall’hardcore punk di partenza a una forma spaventosamente pesante di metalcore. E non solo.

Metalcore riccamente contaminato da elementi totalmente eterogenei al metallo ortodosso ma che, messi assieme a un sound rauco, rabbioso, a tratti violentissimo, danno la spinta ai quattro statunitensi di Pittsburg per rientrare, a piena ragione, nella grande famiglia del metal. Seppure di quello avanzato, evoluto, assai progredito sì da spingerlo addirittura troppo in là, certe volte. Come per esempio in ‘Spy’, ove emerge prepotentemente il cuore… hardcore, andando a somigliare, nelle vocals, addirittura, ai Beastie Boys di ‘Sabotage’.

Il sound dei Code Orange è, però, pazzesco. Una mitragliata sui denti, una scudisciata sulla schiena, una mazzata nello stomaco. Metallo fuso, che ribolle, che scotta. Metallo dalla pesantezza a tratti insostenibile. La sezione ritmica martella come se il luogo di esecuzione fosse un’acciaieria e non una sala di registrazione. L’opener-track, che è allo stesso tempo la title-track, è sin da subito la dimostrazione della precisa messa su CD di un sound gigantesco, profondo, possente e aggressivo in ogni tonalità. ‘Kill the Creator’, con le sue spaventose dissonanze, ascolta con attenzione i richiami della sirena hardcore, tuffandosi senza indugio negli abissi dei breakdown. *-core, stavolta. Abissi in cui giace ‘Real’, agghiacciante manganellata sulla collottola che spezza letteralmente le vertebre cervicali, con la sua chirurgica precisione di mira. Poi, visionari inserti ambient, voci filtrate, rumori, cozzi, ancora stop’n’go da ribaltare un transatlantico danno al brano il flavour di una musica che sarebbe perfetta per un locale della megalopoli di Blade Runner. In ‘Bleeding in the Blur’, Reba Meyers s’inventa una stranissima strofa, addirittura melodica (sic!) dall’evidente sapore punk. O, meglio, cyberpunk, seguendo le gesta di Billy Idol nel suo capolavoro visionario del 1993.

Perché i Code Orange, pur menando duro le mani, riescono a essere lisergici come pochi. Sin trasognanti, a volte, quando il botto della strumentazione elettrica e della batteria di Jami Morgan si accheta un attimo (‘The Mud’). Oppure, incredibilmente dissonanti (‘The New Reality’), altrettanto incredibilmente capaci di acchiappare l’attenzione nonostante una proposta musicale che può definirsi tutto, fuorché catchy, facile, da classifica. Al contrario, “Forever” è un malloppazzo che, almeno a parere di chi scrive, è assai più facile che risulti indigesto invece che piacevole.

Eppure… eppure… il platter ha un fascino irresistibile, procura piacere e dolore allo stesso tempo, possiede un glamour inspiegabile poiché a pelle, istintivo. Strappa le membra con canzoni dall’efferatezza sonora inusitata (la ridetta‘Spy’), arti che poi rimette assieme con il collante sintetizzato dagli umori di una sinuosa, eccitate sensualità. Procedimento chimico figlio di un evidente talento artistico puro, libero, scevro da costrizioni (‘Ugly’). Anche nell’esagerazione verso l’oltranzismo metallico, come avviene nella staccacolli ‘No One Is Untouchable’, breve brivido gelido, tagliente come il bisturi di un neurochirurgo. Perché non è la carne, a essere recisa, ma il sistema nervoso; irresistibilmente entrato in risonanza con le morbose, oniriche, psichedeliche ‘Hurt Goes On’ e ‘Dream 2’.

Più che metalcore, allora, alla fine, cyber deathcore?

Sì.

Daniele D’Adamo

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