Recensione: Formless

Di Alessandro Marcellan - 7 Maggio 2007 - 0:00
Formless
Band: Aghora
Etichetta:
Genere:
Anno: 2006
Nazione:
Scopri tutti i dettagli dell'album
85

“Aghora” (da non confondere con il termine accentato “Agorà”, piazza centrale e luogo di riunione nelle città dell’antica Grecia) è un vocabolo che ha nello shivaismo indù il significato di “Fuoco”, di “Luce” che illumina sulla conoscenza della Morte e sulla trasmigrazione dell’anima, quale monito benevolo per superare le insidie dell’esistenza che imprigionano l’individuo nelle sue espressioni vitali.
“Formless”, in sanscrito Shunyavada, è la “dottrina del vuoto”, la cui tecnica di meditazione porta al distacco dalla realtà materiale per concentrarsi progressivamente su un entità priva di qualunque forma esteriore.

Santiago Dobles, chitarrista e mastermind degli Aghora, da buon praticante torna ad infarcire di testi ascetici la sua musica puramente progressiva, e a distanza di 7 anni dall’omonimo acclamato esordio, raffigura un viaggio spirituale verso la purificazione dell’anima, che si apre e si chiude con i suoni dell’India, fra percussioni, chitarra classica e il banjo di Dobles a scimmiottare un sitar: come il fior di loto nasce dal fango per poi dischiudersi in tutta la sua bellezza (tema dell’intro “Lotus”), così l’uomo può evolvere dai propri istinti primordiali fino a raggiungere la massima coscienza spirituale (cui si giunge nell’outro “Purification”, sorta di mantra recitato da Dobles in persona).
Entrando nel vivo dell’album, la dedica introduttiva a John McLaughlin risulta pienamente in linea con le già note influenze fusion ricavate dalla storica Mahavishnu Orchestra, che nel sound degli Aghora si combinano con gli appena evidenziati elementi etnici e una melodica voce femminile a fare da contraltare ad un potente ma raffinato e contorto riffing thrash-death ereditato, assieme ad un’incessante ricerca ritmica, dal fondamentale “Focus” dei Cynic (dai quali gli Aghora dell’esordio recuperavano anche la mirabolante sezione ritmica Reinert-Malone). I tratti caratteristici e le novità presenti in “Formless” ci vengono offerti già dal primo brano vero e proprio, “Atma’s Heave” (elogio all’innalzamento divino dell’anima contro le realtà illusorie del corpo, della mente e del mondo esteriore), a cominciare dalla voce della giovanissima (appena ventenne) Diana Serra, che, pur non differenziandosi oltremisura dalla precedente vocalist (se non a livello…estetico), si segnala per un timbro più elegante, “educato”, e per un’impostazione tecnica già superiore rispetto alla pur eclettica (e forse più espressiva) Danishta Rivero. Ma ad emergere, fin dal possente attacco epicheggiante (che per un attimo mi ha riportato alla mente i vecchi Blind Guardian), è soprattutto la pesantezza dei suoni della chitarra, messa in primo piano sia nelle scelte di produzione che di accordatura: mentre in “Aghora” era il basso pulsante di Sean Malone a risaltare, qui è il lavoro del chitarrista a ritagliarsi lo spazio maggiore, sia a livello di audio che sul piano della distorsione (qui davvero vicina a certi moderni suoni death). La produzione, curata dallo stesso Dobles con il determinante apporto finale di Neil Kernon (che vanta collaborazioni con Queensryche, Nevermore, Spiral Architect, Dokken…), risulta diverse spanne superiore a quella del primo disco e permette di godere appieno del raffinato gioco fra gli strumenti, tanto nei momenti tirati della strofa -in questo caso- quanto nel refrain jazzato e nei fraseggi solisti di un Dobles particolarmente ispirato. Le melodie, che appaiono generalmente più curate, creano uno stuzzicante contrasto con l’aggressività dei suoni, esaltato maggiormente dalla scelta di abbassare l’accordatura degli strumenti, secondo un’opzione gradita al Dobles pre-Aghora dei tempi del Berklee College: non è un caso che un altro degli ispiratori dell’estroso chitarrista sia Dimebag Darrell, tragicamente scomparso nel 2004 e qui omaggiato con la strumentale “Dime”, sette minuti di variazioni in cui fanno capolino gli stessi Pantera in alternanza a rallentate sezioni di pura fusion. In questi frangenti ha modo di segnalarsi l’eccellente lavoro di Giann Rubio, batterista che prende più di qualche spunto dallo stile “raffinatamente schiacciasassi” di Sean Reinert, qui -tra l’altro- in veste quasi di “padrino” a suonare per una buona metà del disco. Con l’astrusità ritmica di “Open Close the Book” è proprio quest’ultimo a presentarsi rivendicando il suo giusto scettro, laddove le soavi melodie di Diana Serra (che mostra peraltro una buona estensione nell’azzeccato inciso centrale) si dipanano nella rappresentazione del ciclo di trasmigrazione delle anime del Samsara. Vita, morte, reincarnazione, sono anche i temi affrontati in “Moksha (Liberation)”, che rappresenta l’obiettivo di affrancazione dell’anima con dissoluzione dell’ego e del mondo materiale, espressi musicalmente in riffs ossessivi che mostrano come non si sia spezzato il cordone ombelicale che legava la band ai Cynic, mentre nel finale Dobles si diverte in interessanti incursioni vagamente neoclassiche. Sia chiaro, come accennato, che alcune delle scelte operate vanno nella direzione di personalizzare ulteriormente il sound differenziandolo da quello della appena citata band “madre”, e va inteso in questo senso anche l’innesto del nuovo bassista: Alan Goldstein non è il nuovo Sean Malone, e il suo stile (a differenza di Rubio rispetto a Reinert) se ne distacca non poco. Laddove Malone era un “moto perpetuo”, il nuovo arrivato presenta uno stile apparentemente più sobrio e meno esteriore, nonostante un comunque notevole bagaglio che gli permette di spaziare fra tecniche di slap (come nell’intermezzo della tooliana “Dual Alchemy”) e soli di fretless-bass dal retaggio jazz (si veda la marziale “1316” e “Fade”, dedicata ad un familiare scomparso), ritornando invece allo stile movimentato del suo predecessore nella sferzante “Mahayana” (pezzo che celebra la branca “compassionevole” del buddismo indiano). Ma alcuni caratteri dei pezzi ora menzionati meritano più di un accenno: l’influenza dei Tool non è mai stata negata dallo stesso Dobles, e gli intrecci fra basso e chitarra pulita a scandire un ticchettio di note in controtempo con la batteria (tipiche della geniale band di Maynard James Keenan) fanno la loro comparsa, oltre che in “Dual Alchemy”, anche nell’ottima “Skinned”, un brano che, dopo l’apertura di doppio pedale e alcuni minuti sornioni, esalta l’ascoltatore in un liberatorio chorus conclusivo, con le aperture melodiche della Serra egregiamente amalgamate alle veloci armonie d’accompagnamento delineate da una chitarra qui parente stretta dell’ascia di Jasun Tipton degli Zero Hour. E molto originale ed interessante risulta “1316”, canzone di difficile collocazione musicale il cui titolo allude all’incredibile pattern in 13/16 del riff portante, e verosimilmente, date le tematiche pacifiste, anche all’anno di composizione del “Mahabharata”, poema epico (il più lungo mai scritto) narrante delle guerre intestine per il potere nell’India dell’antichità (con evidenti allusioni ai giorni nostri e ai conflitti che ancora infestano il globo). E se il marchio “Cynic” torna ad manifestarsi chiaramente nel ritornello di “Fade”, ecco una virtuosa chitarra flamenco, il cantato sommesso di Diana Serra e una jam-session funkeggiante a riportarci in un ambiente “personalmente Aghora”, che si appalesa poi nelle nuove incursioni indiane -contrapposte all’accordo tirato e veemente della 2a parte- dell’altra strumentale “Gharuda” (in sanscrito “Aquila”, uccello che secondo la tradizione indiana portò sulla Terra il “nettare degli Dèi”), per poi dichiararsi compiutamente e con orgoglio nei riassuntivi 12 minuti di “Formless”, il brano più lungo, complesso e più tipicamente “prog-metal” del disco: qui Dobles (che giura di averne ricevuto ispirazione direttamente dalla divinità di Shiva…) esalta la dinamicità della sua “settecorde”, qui la Serra si destreggia al meglio fra gli estremi del cantato ipnotico iniziale e seducenti vocalizzi a complemento di nuovi inserti etnici, qui Goldstein sfoggia le tecniche più disparate (come nella sezione centrale funky-jazz), qui si compie l’ideale passaggio di consegne fra Reinert e Rubio (a lui l’onore di una suite in cui i tempi dispari si sprecano) e gli Aghora si affermano definitivamente, qualora ce ne fosse bisogno, come una band vera e non più come una “figlia” più melodica dei Cynic (come qualcuno disse incautamente a proposito dell’ottimo album d’esordio).

Difficile trovare difetti in un disco come questo, certo le linee vocali potrebbero essere costantemente sfruttate in un “range” di note più ampio (come accade per es. in “Skinned” e “Open Close the Book”, con risultati davvero di grande effetto), gli stessi riffs talvolta potrebbero aprirsi a soluzioni più ariose (vedi la title-track e “1316”), ma è lampante come ben pochi gruppi possano vantare una personalità così limpida, ed è altrettanto evidente come la cementazione dell’intesa nella nuova line-up non possa che preludere ad affinamenti in grado di plasmare un sound “Aghora 100%” potenzialmente di riferimento per tutto il movimento progressivo. Stando alle dichiarazioni di Santiago Dobles, non saranno necessari altri 7 anni per un nuovo disco (pare siano già in corso delle sessions con Giann Rubio per dei nuovi brani): non ci resta che attendere le risposte che ci aspettiamo, nel frattempo godendoci un grande album che non ha bisogno di “etichette”. “Formless”, senza forma: ciò che, appunto, è anche la musica degli Aghora.

Alessandro Marcellan “poeta73”

Tracklist:
1. Lotus (1:14)
2. Atma’s Heave (5:10)
3. Moksha (5:29)
4. Open Close The Book (4:58)
5. Garuda (2:53)
6. Dual Alchemy (5:36)
7. Dime (7:00)
8. 1316 (5:30)
9. Fade (4:40)
10. Skinned (6:41)
11. Mahayana (7:16)
12. Formless (12:31)
13. Purification (1:45)  

Ultimi album di Aghora

Band: Aghora
Genere:
Anno: 2006
85
Band: Aghora
Genere:
Anno: 2000
83