Recensione: Framework

Di Eric Nicodemo - 19 Settembre 2014 - 7:58
Framework
Band: Work Of Art
Etichetta:
Genere: AOR 
Anno: 2014
Nazione:
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80

 

Si può definire la musica un’arte?

Potrà sembrare una domanda retorica ma la risposta non è poi così scontata: come scrivere un libro può portare a risultati distanti ed arbitrari, anche in campo musicale bisogna distinguere cosa sia meritevole di tale definizione e cosa no. Ragionando o meno, arriveremo alla conclusione che alcune band aspirano ad uno status artistico e sembrerebbe che gli svedesi Work Of Art vogliano elevarsi sin dal monicker a combo virtuoso, concetto perfettamente ribadito da Framework”, ultimo lavoro firmato dai Nostri “pittori”.

Evitandovi altri tediosi preamboli, voglio subito fugarvi ogni dubbio: quest’ultima prova è degna d’attenzione nell’odierno panorama del melodic rock, una tracklist che non si fa mancare tutto ciò che l’AOR fu, è e sarà nel tempo. In parole povere, troverete subito un’opener (Time To Let Go”) capace di rompere gli indugi, con il suo inconfondibile mood edulcorato da linee avvolgenti e backings slanciati. Niente da dire, il motivo centrale è orecchiabile e piacevole ma forse manca di una certa carica, rivelando armonie ed “espedienti” già collaudati che riducono il coinvolgimento per chi è avvezzo al genere. Un’impatto emotivo che rimane a tratti latente a causa di una sessione chitarristica esile, con un guitar solo poco incisivo, dal quale pretendiamo più “fuoco e passione”.

L’ascolto cresce in fascino ed adrenalina con “How Will I Know?”, imbaldanzita dalle sicure chitarre rockeggianti e baciata dalle tastiere gioiose. Questi gli elementi che costituiscono la cornice perfetta dove collocare il vanto di “How Will I Know?” ovvero la melodia corale, predestinata per essere cantata, sognata, ricordata.

Un’altra prova di carattere è “Shout ‘Till You Wake Up”, che mescola un chorus a là Seven con la verve hard’n’roll di un basso trascinante e la grazia argentina delle fugaci pennellate dei tasti.

A differenza dei conterranei State Of Salazar, sembra che gli Work Of Art vogliano parlare il linguaggio dell’AOR con toni sì aggraziati ma sempre vitaminizzati e mai troppo lenti o eccessivamenti cullanti, per evitare l’eccessiva monotonia di una compilation formata da sole ballads. Ecco spiegata la dinamicità congenita di “Can’t Let Go”, che ci fa scorrazzare nel firmamento rock con il suo ritmo agile e il suo ritornello arioso. Volevamo maggiore voglia di stupire ed emozionare e questa volta i Nostri ci accontentano, impastando fugaci parti soliste, dove saggiamo l’esuberanza frizzante di chitarra, synts e tastiere, alleate per un incontro amoroso tra liete armonie.

Mai passivi e sempre attivi gli Work Of Art ci mantengono svegli e vigili con l’elettricità di “How Do You Sleep At Night?” e si mostrano capaci di trattare concept più impegnati in “The Machine”, con il suo assolo che si divincola ribelle al controllo della fredda realtà meccanizzata.

Tuttavia, non ci togliamo di dosso la sensazione che, sebbene privo di evidenti difetti, in “Framework” talvolta latitano canzoni dotate di quel grip gaudioso che fa la differenza tra un ritornello gradevole e un refrain portentoso, contagioso che ci spinge ad esultare e rendere davvero memorabile l’esperienza nell’affollato panorama odierno. Opinione o meno, “Over The Line” sembra constatare questa impressione: il ritmo spezzato del coro pop aggiunge un groove orecchiabile e vivace al platter, tuttavia la canzone non offre altro, risultando un buon pezzo dal gusto danzereccio che, come una caramella gelatinosa, piacerà senza soddisfarci.

D’altronde, la canzone AOR doc deve farci spiccare il volo nel momento cruciale cioè il ritornello. Prendiamo per esempio “Natalie”: è una canzone tutto sommato di concezione semplice (con il suo intro malinconico) e si riassume nel coro portante. Tuttavia, l’armonia di quest’ultimo è così effervescente e contagiosa al grido del titolo, penetrante nel suo irresistibile fluire, che il bersaglio risulta centrato, la nostra emotività è mossa e la hit è servita.

Discorso analogo per “Hold On To Love”, che rifiuta l’ebbrezza dello slancio passionale di “Natalie” e cede in favore di arrangiamenti più esotici ed affettivi, cullandoci in una specie di nuvola di zucchero infarcita di tastiere, una nuvola riscaldata e sciolta dalla voce appassionata di Lars Säfsund.

Dopo le due succitate song, a parer di recensore, si presenta un ulteriore bisogno di grinta o ispirata poesia romantica, giusto per strappare qualche hit in più. Desiderio che ho trovato esaudito solo in parte in “The Turning Point” e nella conclusiva “My Waking Dream”.

La prima è di nuovo una canzone all’insegna di un ritmo frenetico e gioioso, coronato da un refrain enfatico, meno spumeggiante e carico rispetto a “Natalie”. Questo fattore impedisce alla melodia di “The Turning Point” di produrre nello spettatore quel fatidico tuffo al cuore, necessario a conquistarlo ed elevare la canzone dallo status di brano gradevole (dove parte del coinvolgimento lo si deve ad alcuni vibrati).

Allo stesso modo, non ha suscitato nel sottoscritto grande esultanza il lento fluire di “My Waking Dream”, che indulge un po’ troppo sui trastulli dei synts e delle tastiere (per non parlare della voce “sedata” di Lars Säfsund), facendo languire la nostra voglia di maggior trasporto, di un maggior “stimolo emotivo”. Certo, “My Waking Dream” dimostra un songwriting pulito, privo di stonature o passaggi macchinosi, e rivela arrangiamenti curati, tuttavia, manca quella scintilla spontanea che fa vibrare il nostro animo sulle note delle grandi ballads.

Tirando le somme, gli Work Of Art hanno coniato un nuovo platter apprezzabile nella sua interezza grazie ad una qualità dei brani in genere ottima, che oscilla tra il gradevole (“Over The Line”), l’eccellente (“Shout ‘Till You Wake Up”) e l’imperdibile (“How Will I Know?”, “Natalie”). Nessuna delusione, dunque, per i fan di lunga data e per tutti quelli che cercano una via di mezzo tra gioia, passione ed eleganza compositiva. Questi tre componenti, infatti, vengono riassunti e sviluppati al meglio nei brani più ispirati, i quali consentono al disco di ottenere la tanto agognata promozione.

Per il resto, “Framework” appare per quello che è: un lavoro “d’arte”, di capacità indubbie, ma non esente da difetti, con qualche soluzione e idea migliorabile da una band che ha già ampiamente dimostrato il proprio valore in passato. D’altronde, l’arte non è solo ispirazione ed abilità ma anche mestiere.

 

Eric Nicodemo

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