Recensione: Friendship

Di Roberto Gelmi - 13 Gennaio 2019 - 15:00
Friendship
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2018
Nazione:
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75

Quarto album sotto il moniker Gungfly per il cantante e polistrumentista Rikard Sjöblom’s, già anima dei compianti Beardfish.  Dopo On Her Journey To The Sun, il compositore svedese decide di riservare un intero album ai suoi ricordi di vita, riscoprendo le amicizie dell’infanzia ormai andate perdute. Centrale la figura di una casa sull’albero (vedi artwork) che diventa il perno logico per collegare tra loro una serie di reminiscenze genuine, che tentano di rievocare il passato attraverso le sette note. Il sound proposto è a definito dello stesso Sjöblom «prog rock, but I want to be free to move in whatever direction the music wants to go and I happily go exploring where it wants to take me. Even though there are a few softer songs and sections, most of the album turned out to be a rocker» (rock progressivo, ma voglio essere libero di spostarmi in qualunque direzione si muova la musica e vado felicemente esplorando i luoghi dove la musica vuole condurmi. Anche se ci sono alcune canzoni e sezioni più leggeri, la maggior parte dell’album si rivela rock).
L’opener “Ghost of Vanity” ha un incipit che dire invitante sarebbe riduttivo: ci sono le giuste cadenze, un crescendo ricercato e poi il pezzo s’immette sui binari cari a Sjöblom, attento a valorizzare le linee di basso e quelle vocali (spesso con rubati caratteristici). C’è spazio anche per qualche nota in falsetto, ma a predominare sono le chitarre elettriche a tratti quasi metal. La title-track nel suo quarto d’ora di durata è un tuffo nei Seventies, restando strumentale nella sua prima metà per poi aprirsi a strofe nostalgiche nella seconda. Ricordiamo tuttavia che la peculiarità del timbro di Rikard gli permette di cambiare in pochi istanti il taglio del brano, passando da tonalità zuccherose ad altre graffianti (in questo istrionismo per certi versi si avvicina al maestro Gildenlow). Ballata in ricordo degli amici che furono, “They Fade” trasuda atmosfere scandinave. Curioso come, a sentire il mastermind, i compagni d’infanzia così importanti nei primi anni di vita scompaiano nel nulla quando si diventa adulti, ma lasciando in noi un ricordo indelebile, perché idealizzato dalla magia degli occhi di chi vede ancora il mondo come fosse concepito tutto attorno a sé. Bellissima “A Treehouse in a Glade”, strumentale programmatica dell’intero album. All’avvio ricorda “Drown with me” dei Porcupine Tree, poi si apre a parti ipnotiche di tastiera con rimandi agli Yes. Divertiti i ritmi e gli arrangiamenti di “Stone Cold”, pezzo fatto di hammond e chitarre sapide, falsetto, un tripudio di prog. del nuovo millennio. Il confronto con i Toehider non appare fuori luogo, siamo parlando di uno tra gli highlight del disco. Segue “If You Fall, Pt.2”, continuazione della breve e lisergica part 1 nel precedente album dei Gungfly, anche se ci pare di avere per le mani una song dei migliori Beardfish di Sleeping in the traffic. Si toccano vette di follia proggish non indifferenti, ascoltare i minuti decimo e undicesimo per farsi un’idea di cosa significa informale astratto in musica.
Dopo tanta insania il platter trova il suo epilogo nella più canonica “Crown of Leaves”, pezzo cadenzato che pare una pioggia rinfrescante che scende su ritmi jazz per accompagnarci verso la conclusione del percorso rammemorante.

In definitiva un altro album che merita l’ascolto: la Svezia è la patria adottiva della buona musica, crede nella bontà di quest’arte e noi ringraziamo chi come Sjöblom si mette in gioco per regalare momenti di sana divagazione creativa.

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

 

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