Recensione: Gambling With The Devil

Di Gaetano Loffredo - 26 Ottobre 2007 - 0:00
Gambling With The Devil
Band: Helloween
Etichetta:
Genere:
Anno: 2007
Nazione:
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80

Toc toc…
O mi dai un buon dolcetto,
o ti becchi uno scherzetto!
Devi fare questa scelta
muoviti, su, fai alla svelta!
Non hai tempo di pensare
sono qui per spaventare
chi i dolcetti non mi dà
prima o poi si pentirà!

E il dolcetto è arrivato a destinazione qualche giorno prima della notte delle streghe. Signore e signori, bentornati al Luna Park ma, prima di salire sulla giostra che più vi attira, date il benvenuto al nuovo arrivato: Gambling With The Devil.

Gli Helloween servono in tavola il dodicesimo dessert e ripartono con quella attitudine armoniosa e sbarazzina che è nel DNA del power metal targato Michael Weikath & Co: riusciranno i nostri eroi a mantenere alto l’onore dello storico nome evitando di tornare a scomodare i fantasmi di un glorioso passato? 
The Legacy (2005), con i suoi due dischi infarciti di canzoni, aveva migliorato (non che si potesse fare peggio) la prova non proprio eccelsa di uno spuntato Rabbit Don’t Come Easy (2003) ma, quello che sembrava essere un espediente geniale, il doppio cd, ha avuto lo sgradevole sapore di un’operazione grossolana: troppa carne sul fuoco, qualità altalenante e curva dell’interesse sulla rapida via del tramonto. Sono sette gli anni che ci separano dall’ultima vera perla degli Helloween, The Dark Ride (2000), nove dal disco che considero, per vicinanza stilistica, fratello maggiore di questo Gambling With The Devil: Better Than Raw (1998).

Detto questo, chiudete la finestrella che volge sul passato e lasciate perdere ogni tipo di confronto: spostiamo l’interesse unicamente sul presente.

Il nuovo rampollo del combo tedesco è esattamente come vorreste che sia: assoli veloci, ritornelli spregiudicati, ritmiche incalzanti, completato dalla giocosa frenesia emblema del sound helloweeniano. In due parole: fresco e incisivo.
E non stiamo parlando di una svolta radicale, ma di una ritrovata allegria che mette in risalto un songwriting davvero brillante.
 
Bastano le prime tre canzoni per inquadrare al meglio la situazione.
Le chitarre elettriche di Michael Weikath (beato tra le note) e di Sascha Gerstner innestano il turbo subito dopo l’intro Helloween style, Crack The Riddle, aprendo il varco alla solida Kill It, traccia manifesto del power made in Germany.
L’ingresso in scena di Deris, fate attenzione, è la prima delle migliorie tecniche: Andy è autore di una performance sorprendente attraverso la quale garantisce intensità ed estensione davvero insolite. Frutto di esperienza acquisita, studi approfonditi o cos’altro?
Lo spigliato saliscendi dell’interminabile The Saints, gemma dell’intero disco, è un rispolvero delle antiche memorie: la cornice costruita attorno non può far altro che rievocare lo spirito di Keeper Of The Seven Keys per un pezzo la cui melodia delle chitarre si incastra al millimetro con le orchestrazioni poco complesse ma mai ridondanti.
Sono i motivetti docili e spensierati a fare la differenza nelle speculari As Long As I Fall e Can Do It, brani molto semplici nella strutture, spiritosi e ricreativi come da copione.
Pochi gli accorgimenti, ma tanto riusciti da restituire quel pizzico di personalità che, per esempio, fa di Paint A New World un pezzo slanciato e grintoso, con un crescendo alla ricerca della solita efficace via di fuga: il ritornello.
La band ci lascia rifiatare con uno dei brani più riusciti dell’era Deris, l’anthemica Final Fortune (questa volta è da elogiare la distribuzione sapiente della scaletta) e riparte a testa bassa con la velocità e la melodia di The Bells Of The 7 Hells, a conferma di un lavoro immediato che, senza accusare i segni del tempo, riesce a farsi apprezzare interamente.

Nota bene: ogni brano ha qualcosa da comunicare, qualcosa da trasmettere, una caratteristica alla quale ci si stava via via disabituando. Bene così.

La dicotomia percussioni-distorsioni è una costante rimarcata nelle successive Fallen To Pieces e I.M.E., dove i cambi di tempo determinano il successo della prima e l’arzillo giro di chitarra elettrica quello della seconda.
Scaleremo l’ultima vetta di furia iconoclasta (complice l’esaltante assolo centrale) ascoltando quella che diventerà una superclassica del metallo tedesco, Dreambound, prima di innalzare la bandiera a obiettivo raggiunto sulle note della conclusiva Heaven Tells No Lies.
Il pranzo è servito. Il caffè (Find My Freedom) e l’ammazzacaffè (We Unite) sono gentilmente offerti dalla versione limitata del disco, come da tradizione SPV.

Armati di coraggio, creatività e di idee molto chiare, la squadra composta da Michael Weikath, Andi Deris, Dani Löble, Sascha Gerstner e Markus Grosskopf porta a casa un successo quasi insperato, dimostrando cuore e carattere sufficienti per estrarre dal cilindro non un coniglio di plastica, ma uno in carne ed ossa.
Come se non bastasse, i tedeschi provano ad imitare il buon Willy Wonka promuovendo un concorso (tra il solo pubblico sudamericano purtroppo) che prevede concerti omaggio a fronte dei voucher che i più fortunati troveranno all’interno della confezione: ciliegina sulla torta per un disco coi piedi ben piantati nella tradizione teutonica e che suona, finalmente, come “zucca comanda”.

Zucca di Halloween stregata
come sei bella illuminata,
come mi guardi sorridente,
come mi sembri stravagante.
Mi terrorizzi, un pochettino,
con quel tuo sguardo malandrino:
in questa notte, o zucca arancione,
riempimi di dolci e zabaione!

Gaetano Loffredo
Filastrocche di Jolanda Restano (www.filastrocche.it)

Tracklist:
1.Crack The Riddle (Intro)
2.Kill It
3.The Saints
4.As Long As I Fall
5.Paint A New World
6.Final Fortune
7.The Bells Of The 7 Hells
8.Fallen To Pieces
9.I.M.E.
10.Can Do It
11.Dreambound
12.Heaven Tells No Lies

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