Recensione: Gemini

Di Stefano Usardi - 2 Aprile 2018 - 11:00
Gemini
Band: Mistheria
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2018
Nazione:
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74

Anno 1997: sono un imberbe e innocente virgulto, non ancora maggiorenne, che per la prima volta si approccia alla musica classica, alla ricerca di qualcosa di nuovo dopo aver sviscerato per bene la proposta di gente come Queen, Enya, i Goblin, The Doors, Marilyn Manson, un po’ di dark wave e di musica hardcore (ma non quella che ci si potrebbe immaginare su questo sito…). Questo primo approccio consisté nell’acquisto di “Classic in Rock”, di Claudio Simonetti, album che anche adesso mi ascolto con piacere e che, inutile dirlo, alle mie orecchie di giovin virgulto aprì un mondo nuovo. Anni dopo, in seguito all’illuminazione e all’avvento del Verbo, sono rimasto legato alle commistioni tra musica classica e metallo, ma nonostante abbia incontrato spesso lungo il cammino gruppi decisamente notevoli (Therion, LMO e Haggard giusto per citarne qualcuno) non mi sono mai imbattuto in gruppi che mi trasmettessero quel tipo di emozione che invece avevo provato col dischetto sopracitato.

Anno 2018: per caso mi imbatto in “Gemini”, nuovo nato in casa Mistheria, virtuoso tastierista abruzzese – molto attivo anche in ambito meno metallico – di cui già abbiamo già avuto modo di parlare in un paio di occasioni. Dando un’occhiata in rete sui dettagli del progetto e del suo autore mi si accende una scintillina negli occhi. Che sia la volta buona?

Fin da subito, “Gemini” ha avuto tutte le carte in regola per fare breccia nel mio cuore di non-più-giovin virgulto: un sapiente mix tra musica classica e svolazzi speed che si manifesta in tredici tracce suddivise tra composizioni originali e riarrangiamenti di brani noti (vedi la Sonata al Chiaro di Luna del Ludovico Van, il Volo del Calabrone di Korsakov o l’Adagio in Sol Minore, noto ai più come di Albinoni) per un’ora di musica strumentale di alto profilo, anche considerando l’abilità del cast di tutto rispetto di cui il nostro virtuoso si è circondato. Ebbene sì, signori, avete letto bene: “Gemini” è un album del tutto strumentale, qui sono solo gli strumenti a parlare, ma permettetemi di fugare fin da ora i vostri dubbi. Nonostante, infatti, le composizioni strumentali siano, a quanto mi si dice, tradizionalmente più indigeste per l’utenza media, posso tranquillamente affermare in tutta sincerità che il lavoro di scrittura del nostro amato connazionale è riuscito a donare a ogni traccia una coerenza interna e un livello di solidità tale da non far pesare l’assenza di parole: le linee dei vari strumenti si intrecciano, si sovrappongono, si inseguono e si separano, pretendendo attenzione o facendosi da parte per creare atmosfere ora soffuse, ora incalzanti, ora solenni, incoraggiate da una sezione ritmica intensa e sfuggente a seconda delle necessità; ogni traccia scorre ottimamente, con i vari ospiti che si sostengono vicendevolmente ritagliandosi il proprio spazio senza sopravanzare gli altri, e sebbene la parte del leone la facciano, com’era chiaramente lecito aspettarsi, le tastiere del lìder maximo, è molto raro che tale preminenza crei un eccessivo sbilanciamento nell’economia dei suoni andando a detrimento della resa finale. Per lo stesso motivo mi sento di tranquillizzare anche i più oltranzisti tra di voi: nonostante la già detta leadership tastieristica, anche la componente più aggressiva si sente, e sebbene si stia parlando di metallo neoclassico, tendenzialmente più portato all’elegante virtuosismo che alle martellate a cui alcuni di voi sono più avvezzi, qualche bella frustata c’è comunque anche qui.
Ad ogni modo, al di là di quale aspetto sia più o meno marcato in “Gemini”, va notato a mio avviso il notevole equilibrio delle composizioni che, seppur appartenenti ad un genere inviso a una certa fetta di utenza per la sua vera o presunta ridondanza (le temutissime sbrodolate di note ci sono, ma non in numero tale da essere pressanti né, tantomeno, fastidiose), si lascia ascoltare senza alcun problema proprio per via di una composizione agile, coscienziosa e tutt’altro che indigesta; certo, ogni tanto sente un po’ di millanteria dispensata qua e là, ma è veramente poca cosa rispetto a ciò che mi sarei aspettato leggendo sulla carta di un progetto del genere. L’arma in più di un album come “Gemini” è proprio l’apparente facilità con cui le sue composizioni, tutt’altro che semplici o lineari, fluiscono in modo naturale senza dare l’impressione di ristagnare in un cul de sac di sterile autocompiacimento: una scorrevolezza di fondo che rende l’album appetitoso anche per un pubblico più ampio di quello che solitamente si dedica al metal neoclassico, e il cui tasso di gradimento non fa che crescere ascolto dopo ascolto.
Niente male, niente male davvero.

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