Recensione: Ghost Book

Di Ares982 - 16 Novembre 2004 - 0:00
Ghost Book
Band: Kevin Moore
Etichetta:
Genere:
Anno: 2004
Nazione:
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75

Kevin Moore. Uno dei più grossi interrogativi, un “caso irrisolto” nella storia degli ultimi 15 anni di prog. Una carriera lanciata con i Dream Theater, uno stile che da solo riusciva a dare il proprio colore al gruppo, una tecnica sopraffina, tre dischi stupendi alle spalle e una serie di altri a venire, live in giro per il mondo. Poi, dopo Awake, il Kevin Moore di Take The Time è morto, lasciando la bellissima Space Dye Vest come unico segnale di transizione.
Se uno dovesse ipoteticamente ascoltare i Chroma Key prima dei Dream Theater, quando gli dite che il tipo che assoleggia in Learning To Live con quei synth che bucano le orecchie è lo stesso di On The Page, si mette a ridere. Da questa ironia, nasce una domanda che mi ha assillato per tutto l’ascolto di Ghost Book: del vecchio Kevin Moore cosa è rimasto? La sua tecnica incredibile lascia il posto ad un programming maniacale, il suo suono al tempo stesso progressivo e delicato lascia il posto ad atmosfere ambient et similia. La risposta sarebbe quindi nulla, e li per li potrei tirar fuori il cd dal lettore e metter su qualcos’altro. Ma poi mi sono imposto di concentrarmi per un attimo sul disco invece che sul compositore. Allora, questa inanzitutto è una colonna sonora, quasi totalmente strumentale, di un horror comedy turca intitolata Okul (La scuola), dalla trama americaneggiante che ricorda un incrocio tra Beverly Hills e Scream; ascoltando l’album tuttavia non si direbbe, e verrebbe più da pensare a un film molto più cerebrale e profondo. Tuttavia, lasciamo perdere anche il fatto che si tratti di una soundtrack (di un film che peraltro non penso vedremo mai in italiano), e concentriamoci unicamente sulla musica.
Il disco si apre con una Rhodes Song molto delicata, con percussioni accennate e un piano melodico che progredisce in una melodia sempre più rilassante. Tuttavia l’ending è improvvisa, e l’inquietudine si affaccia con Prayer’s Call, ma è questa una breve illusione, perchè la successiva Piano Theme ci riporta sui binari della calma e della melodia. O no? Roof Access ci incalza in modo delicato ma subdolo, per poi squarciare in modo positivo la tensione con un’elettronica e orientaleggiante Far Fara, uno dei pochi pezzi cantati (in turco) dell’album. Con le successive P.S. , Library Noise e Overheard ricomincia il ciclo di musiche con melodie molto aperte, ambientali ma tuttavia cariche di una tensione fondata sull’attesa di qualche esplosione sonora che non arriva mai. E mentre il primo dolce minuto di Romantik, ci dice che forse ci siamo proprio sbagliati, ecco che la bomba esplode. Il carillon che aveva accompagnato gli archi suona una versione leggermente diversa della melodia principale, distorta, e uno strano, vibrante e ossessivo rumore di fondo ci porta nella “dimensione parallela” di cui le prime 8 tracks sono state solo una premonizione. L’album continua con The Hecklers, che sembra la versione “malvagia”, subdola delle precedenti Piano Theme o P.S., così come Mirrors And Phones, che presenta una progressione inquietante dal minimalismo alla cacofonia più ossessiva. Shall We Jump e Cowbloke sembrano darci un attimo di respiro, ma ecco che la mente è di nuovo rapita da Erotik, che in uno stile tra il psichedelico e l’ orientaleggiante si muove tra ritmi incalzanti e gridolini lussuriosi con un passo naturale e perverso. Ma il climax non arriva, e questa tensione creata per esplodere deve confrontarsi con una Roof Access (Night) dai toni spenti ma sempre contenenti quella sorta di “pericolo nascosto” che si avverte in tutto il disco. A questo punto, la nostra mente vuole scappare, e Moore non la tortura oltre e le da una via di fuga con Hallways And Lights, che mostra una progressione inversa, ovvero dal teso al finalmente tranquillo. La fine del disco è suggellata da Afterschool e sopratutto Sad Sad Movie, in cui il cantato di Kevin Moore fa da titoli di coda ad un’avventura che la nostra mente si rende conto solo ora di aver compiuto alla ricerca di un “mostro”, di un fantasma che forse non abbiamo trovato perchè etereo, o che forse semplicemente non esiste.
Tecnicamente non c’è nulla di spettacolare, se non (e non è poco) il maniacale programming, la ricerca ossessiva e ossessionante di atmosfere, la perfezione nel tendere trappole alle orecchie dell’ascoltatore e di portarle nelle direzioni volute. E’ un disco che piacerà a pochi, perchè bisogna abbandonarsi totalmente ad esso e lasciare che sia la musica la propria vista, udito, tatto e ragione. E quando l’avrete fatto, concorderete che anche fuori dai Dream Theater, fuori da ogni situazione commerciale, fuori da ogni logica musicale, Kevin Moore è uno che ci sa fare.

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