Recensione: Ghostwatcher

Di Matteo Di Leo - 29 Marzo 2013 - 0:01
Ghostwatcher
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
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50

Da Lexington-Fayette, U.S.A., ecco i Beyond The Shore.

Giovani, arrabbiati, dediti al metalcore (scusate la rima, tanto orrenda quanto involontaria). Un copione già visto direte voi e non potrei essere più d’accordo. Cosa aggiungono al canovaccio? Qual è la peculiarità che li differenzia dallo stuolo di musicisti infilati in questa corrente? Sicuramente una massiccia veemenza musicale e il messaggio positivo e ‘spronante’ delle liriche. Ma anche queste non si possono definire proprio delle novità e quindi non s’inventa di certo l’acqua calda.

Indi per cui questa band è sostanzialmente inutile? Superflua? Beh, andiamoci piano, se una casa discografica leggendaria come Metal Blade Records decide di scritturarla dopo un EP (“The Arctic Front” del 2009) permettendole quindi di debuttare sulla lunga distanza e teoricamente di arrivare negli scaffali dei negozi di tutto il Mondo (immagine un po’ vetusta ma che rende il concetto) un motivo ci sarà. Solo che da “Ghostwatcher” queste grandi motivazioni si stentano a percepire.

Intendiamoci, il gruppo sa sicuramente suonare, ma l’‘x factor’ per usare un’espressione in voga negli ultimi anni pare ancora latitare o comunque si riesce al massimo a intravedere. Quindi, possiamo azzardare che alla base della scelta dell’etichetta fondata da Brian Slagel vi sia un discorso lungimirante, la programmazione di un percorso ad ampia gittata per seguire il quintetto durante la crescita. Potrebbe essere, ce lo auguriamo. Soprattutto si spera che questi ragazzi non vengano ‘mollati’ in caso di fallimento commerciale di questo album e del mancato salto sul carro vincente, fosse altro per non veder crollare tutto il discorso fatto fin qui!

Il disco rientra a pieno titolo nella variante più violenta del genere, giostrato su ritmiche spezzate, ‘a mitraglia’ e su i breakdown, con una precisa predilezione per i tempi contenuti e groovy e poche accelerate di giri. Le chitarre danno prevalentemente sostegno alla sezione ritmica e si ritagliano pochissimi spazi per solismi e ricamature melodiche/armoniche, lasciando di fatto la scena alla voce tenera come un foglio di carta vetrata di Andrew Loucks, ottimo negli urlati, un po’ meno per le parti pulite e ‘disperate’, specie quando si lascia prendere troppo da una teatralità evidentemente posticcia (vedi “Homewrecker”). Buoni nel complesso il missaggio e la produzione, nonostante qualche modernismo di troppo che mi ha fatto storcere il naso.

Da brani come “Half Lived”, “Glass Houses”, “Dreamkiller” e l’eponima traccia di chiusura è possibile cogliere il potenziale dei ragazzi del Kentucky, mentre il resto delle canzoni risulta tutto sommato privo di mordente, come se non fossero ancore pronti a sostenere il peso di un album completo e per questo motivo non possiamo esimerci dal rimandarli alla prossima volta.

Matteo Di Leo

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