Recensione: Good To Be Bad

Di Fabio Vellata - 26 Aprile 2008 - 0:00
Good To Be Bad
Band: Whitesnake
Etichetta:
Genere:
Anno: 2008
Nazione:
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92

Ed eccolo finalmente.
Uno degli attimi più attesi e sognati da ogni rocker. Il ritorno del grande, unico ed impareggiabile Mr. Coverdale, il padrone incontrastato di quella leggenda che da anni si tramanda con un nome altisonante e pieno di magia, capace di suscitare ammirazione, emozioni e feeling unico:
il maestoso Serpente Bianco, il totem Whitesnake.

Difficile stendere le recensioni in casi come questo. Quando si tratta di disquisire di qualcosa che ti accompagna da una vita, che ti ha fatto innamorare perdutamente di un modo di fare musica, che ti appartiene nel profondo, il rischio è di uscire dalla veste del freddo critico per entrare in quella, più prosaica e faziosa, del tifoso da “stadio”, ma tant’è, il dado è tratto e, cercando di mantenere, ove possibile, un obiettivo distacco, sarà sempre complicato non indulgere in partigianerie e occhi di riguardo.

Partiamo subito con il dire che, chiunque si sia chiesto in tutti questi anni (accidenti zio Dave, quanto ci hai fatto aspettare!) come avrebbe potuto suonare la versione moderna dei Whitesnake, avrà immediatamente una risposta totalitaria e senza possibilità di replica.
Come negli anni ottanta!
Ma con un’energia rinnovata, una forza dirompente ed un suono “rotondo”, come si conviene nel nuovo millennio.
Si tranquillizzino dunque i timorosi: Coverdale non ha svenduto il proprio marchio di fabbrica e lo stile, l’atmosfera, la grandeur tipica del Serpente Bianco, sono ancora intatte e permangono inalterate, pienamente riconoscibili in ogni minimo istante di ogni singolo brano.
Ed è proprio questo il nocciolo della questione: l’energia.
“Restless Heart”, l’ultimo prodotto uscito sul mercato che in qualche modo aveva a che fare con gli Snakes, era, infatti, una raccolta di canzoni che propendeva maggiormente verso il lato romantico/intimista dell’animo di Coverdale, abbandonando alla memoria ed ai ricordi la verve e la grande forza rock del decennio precedente, periodo sublimato dalla realizzazione dell’immenso ‘1987’, disco riconosciuto da sempre quale uno dei capolavori indiscutibili dell’hard targato eighties.

Ebbene, lasciati da parte i fazzoletti e le storie emozionali, il rock torna a tuonare imperioso, portando con se un carico di adrenalina e voglia di colpire duro come non accadeva da tempo immemore, come a voler dire che sì, i Whitesnake sono ancora qui e sono ancora i detentori dello scettro di band più elegante, eccitante ed emozionante del pianeta.
Le canzoni lo dimostrano e non lasciano spazio a dubbi: l’iniziale “Best Years” è un tuffo al cuore ed un ceffone in pieno volto, con il potere di risvegliare gli animi sopiti di chi, sostenitore del rock più vero e sincero, non potrà fare a meno di percepire un brivido sinuoso e provocante, una soddisfazione addormentata da anni ed una gioia crescente, proporzionale al volume dello stereo, destinato ad inchiodarsi su livelli terrificanti.
Sensazioni che si rincorrono a perdifiato, eruttando senza pietà uno dei migliori pezzi mai scritti da Coverdale. “Can You Hear The Wind Blow” reca in se tutto quello che un brano hard rock deve avere: forza dirompente, ritmo, eleganza innata ed una voce da dio dell’olimpo, forte, virile e dominatrice. Impressionante poi il lavoro chitarristico: massiccio e di grandissima classe, paragonabile solo a quanto fatto da un certo John Sykes vent’anni fa…
Non cede il tiro nemmeno “Call On Me”, esaltando, ove possibile, ancora maggiormente le doti d’esuberanza e vitalità del gruppo anglo-americano. Immaginate una versione ipervitaminizzata e muscolosa dei Led Zeppelin, con tanto di ritornelli terremotanti e chitarre infuocate.
Si può chiedere di meglio alla musica?

E poi? Poi, beh, se una volta gli occhi dei rockers si riempivano di dolcezza e romanticismo alle prime note di “Is This Love”, è ora finalmente giunto il momento di regalare un fratello al lento più bello della storia, forse meno ammantato di magia, ma ugualmente zeppo di feeling e sentimento.
“All I Want, All I Need” perpetua la tradizione “Coverdaliana” in materia di emozioni eleganti e quasi hollywoodiane: una passionalità irraggiungibile ed una interpretazione caldissima, per uno slow elettrico e bollente come solo il songbook del Serpente Bianco sa offrire.
Le memorie settantiane sono invece la base delle successive frecce: la title track, “Good To Be Bad” e la urgente “All For Love”.
La carica di veemenza riprende in tutto il proprio vigore, occhieggiando nell’incedere ad epoche antiche che tanto sanno di “Slide It In” e “Saints And Sinners”, con l’aggiunta però, di uno sprint tutto nuovo, più acceso e corposo, moderno se si vuole, ma ugualmente stilosissimo e pregno di raffinatezze.
E’ un grande ritornello quindi, il punto forte della seguente “Summer Rain”. Pezzo semi acustico dal sapore dolce come il miele, è un ulteriore esempio della capacità di mr. Coverdale nello sfornare esempi di languido e sentimentale rock d’altri tempi, grandiosamente sognatore e dai contorni suggestivi ed onirici.

Ma attenzione a non eccedere nel relax!
Quello che attende dietro l’angolo, infatti, è in grado di polverizzare l’amplificatore del vostro stereo nel breve volgere di poche note, riportando in auge il sound ferocemente rock n’roll degli Snakes d’annata e procurando un severo calcione all’orgoglio di tutti quelli che, nel tempo, hanno cercato di avvicinare la maestria di David Coverdale nel miscelare blues e hard in modo azzeccato e riuscito.
Il finale di album è tutto un fuoco d’artificio: “Lay Down Your Love”, “A Fool In Love” e “Got What You Need” accendono i motori e bruciano intensamente, saziando gli animi degli amanti di un genere tanto eccitante e vitale come l’hard rock, a volte un po’ bistrattato, talora considerato per soli collezionisti ed appassionati di suoni “vintage” ma, mai come questa volta, capace di sfidare a viso aperto chiunque abbia l’ardire di mettersi sul proprio cammino, dimostrando, se per caso fosse necessario, che ancora oggi come un tempo, la passione unita alla grinta danno origine ad un cocktail esplosivo e fulminante.

Resta il tempo per un unico e conclusivo battito d’ali. “Till The End Of Time” ci congeda da un disco splendido, offrendo una versione ancora una volta sognante e raffinata del grande Serpente Bianco. Un tramonto romantico che, come un tempo fatto da “Sailing Ship”, ci lascia con la certezza di aver assistito ad uno spettacolo unico ed impareggiabile, ad una prova di forza, stile e raffinatezza che solo i grandissimi fuoriclasse, ormai quasi del tutto estinti, sanno fornire.

Un Coverdale stupendo ed in forma come ai bei tempi, una band eccellente e preparatissima ed un nucleo di canzoni praticamente senza punti deboli, vanno dunque a comporre le fondamenta per uno degli highlights del 2008.
Un disco che, a parere di chi scrive, avrà ben pochi rivali nella top list di fine anno.

Ti abbiamo aspettato tanto zio Dave, ma adesso lo possiamo dire: ne valeva la pena!

Tracklist:

01. Best Years
02. Can You Hear the Wind Blow
03. Call On Me
04. All I Want All I Need
05. Good To Be Bad
06. All For Love
07. Summer Rain
08. Lay Down Your Love
09. A Fool In Love
10. Got What You Need
11. Til the End of Time

Line Up:

David Coverdale – Voce
Doug Aldrich – Chitarra
Reb Beach – Chitarra
Uriah Duffy – Basso
Timothy Drury – Tastiere
Chris Frazier – Batteria

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