Recensione: Grey Heavens

Di Daniele D'Adamo - 26 Febbraio 2016 - 23:31
Grey Heavens
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2016
Nazione:
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90

Fra i tanti misteri che possono contraddistinguere il raggiungimento del successo planetario di una band o meno, c’è questo. Quello degli Ominium Gatherum, formazione finlandese straordinaria, fenomenale interprete del moderno death metal melodico, assolutamente superiore ai migliori nomi della relativa scena, anche storici. Incredibilmente misconosciuta, addirittura in maniera inversamente proporzionale alla sua grandezza.

Ma così è. L’ingiustizia regna sovrana, sulla Terra, e non resta altro che prenderne atto. Situazione che, al contrario, non può impedire di narrare le epiche gesta di questo meraviglioso ensemble di Karhula, capace sforare album dal livello qualitativo eccelso con una regolarità tipica dei cronometri svizzeri. Dopo il superlativo “Beyond” del 2013, la magica epopea continua con “Grey Heavens”, settimo atto di una carriera iniziata nell’ormai lontano 1996.

Benché il melodic death che alimenta l’anima di Jukka Pelkonen e compagni derivi da una rivisitazione classica dell’originario gothenburg metal, mancando quindi teoricamente di particolari elementi innovativi, la personalità del sound di “Grey Heavens” è unica al Mondo. Anche una brevissima sequenza di note presa a caso nel platter splende di vita propria, rimandando immediatamente all’inconfondibile marchio di fabbrica da essi disegnato.

A fare la differenza che, a parere di chi scrive, è tanta, tale da annullare qualsiasi potenziale difetto insito nel predetto sound, è la classe compositiva posseduta dal sestetto scandinavo. Un talento senza fine, capace di regalare agli ascoltatori song su song dall’incommensurabile grandezza, come per esempio l’hit “Frontiers”, spaventoso agglomerato di melodiosa armonia. Che inzuppa all’inverosimile strofa, ponte e ritornello, solo di chitarra compresa. Una canzone storica, destinata a stamparsi per sempre all’interno della scatola cranica di chi ascolta la musica con il cuore. Lontana anni-luce da orpelli, appesantimenti, stucchevolezze. Il refrain scoppia di lirismo, dolcezza; esalta, commuove, trascina e uccide. Per far volare in altre dimensioni, dove regnano i sogni e dove svanisce la sofferenza, si dilegua il dolore.

Va da sé che non è solo “Frontiers” a nobilitare “Grey Heavens”. Sin dall’opener “The Pit”, difatti, la sensazione è quella di avere davanti un percorso lineare, rettilineo, planimetricamente perfetto. Senza buchi. Senza cali di tensione. Senza riempitivi. Se “Frontiers” è un capolavoro, “Rejuvenate!” e “Foundation”, oltre a mantenere inalterato l’enorme peso specifico della medesima classe cristallina, mostrano il versante roccioso dello stile degli Omnium Gatherum. Un lato che s’integra eccezionalmente con quello più armonico, grazie al quale il sound si mantiene costantemente possente e granitico, pieno e profondo.

Se da una parte, inoltre, il disco offre brani dalla durata classica, dall’altra mostra la naturalezza dei Nostri a sapersi districare, anche, nel complicato territorio delle suite, nelle quali è facile perdere il filo del discorso. Fattispecie che non interessa certamente “Majesty And Silence”, dall’alto della sua ricca e abbondante presenza sfaccettature di marmo finemente lavorate, delle sue istintive alternanze fra leggerezza e pesantezza.

Il mood velatamente melanconico che si annida fra le tracce di “Grey Heavens” trova sfogo in “Ophidian Sunrise”, lenta e struggente discesa nelle pieghe più recondite e tristi del cuore, ove attende “These Grey Heavens”, superlativa strumentale che non lascia scampo alla consapevolezza di quanto sia grigia e priva di gioia la vita dell’uomo.

L’inarrestabile talento compositivo degli Omnium Gatherum, insomma, dona – tenendo ben fisso il focus sullo stile – una molteplicità di emozioni, di sensazioni che, purtroppo, sapranno cogliere in toto solamente le anime più dimesse e sensibili. E forse è questa la risposta alla domanda primigenia. Gli Omium Gatherum sono troppo grandi e quindi, quasi beffardamente, solo per pochi.

Daniele D’Adamo

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