Recensione: Guilty As Sin

Di Eric Nicodemo - 29 Luglio 2013 - 18:57
Guilty As Sin
Band: Amaze Me
Etichetta:
Genere: AOR 
Anno: 2013
Nazione:
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70

Ancora “voglia di stupire” per gli Amaze Me che del rock vecchia scuola ne fanno una fede…o per meglio dire una “colpa”…
D’altronde come dar torto a Mr. Broman che, sfruttando il rinnovato interesse per il rock melodico, coglie l’occasione per pubblicare quasi 15 anni dopo il seguito di “Wonderland”, con il titolo di “Guilty As Sin”, quarto album di una carriera iniziata con l’omonimo esordio nel lontano 1995, sotto l’egida della giapponese Alfa Brunette, cosa non strana, se pensiamo a quante pubblicazioni hard’n’heavy videro la luce nel sol levante durante gli anni ’90, dai progetti meno conosciuti (gli italiani Zero) a quelli più noti (il John Sykes solista o i Praying Mantis).

Detto questo non è necessario puntualizzare che ci troviamo di fronte all’ennesimo prodotto figlio del rock tradizionale (Legs Diamond) che (com’è di moda da un po’ tempo) cerca di rinverdire i fasti del passato attualizzando il sound classico con una produzione moderna (Edguy docet): tale concetto è ribadito anche dalla struttura stessa delle composizioni, le quali nascono per lo più dall’intro delle tastiere o dell’acustica (“Can’t Stop Loving You” e “Save Me”), secondo un pattern che apparirebbe al primo ascolto ripetitivo e avaro di emozioni.
Ciò farebbe pensare ad una scaletta senza contraccolpi o sorprese ma se “Everybody” e “Lost In A Dream” confermano le preoccupazioni iniziali (la prima è un trittico formato da tastiere velate- rhythm guitar – voci soffuse, mentre la seconda costituisce un patchwork di cuts acustici e refrain cadenzati), la sopracitata “Can’t Stop Loving You”, “Save Me” e “With Or Without You” lasciano il segno, grazie a ritornelli ricchi di verve, che imprimono un mood contagioso, rimettendo in gioco gli Amaze Me. La formula vincente è perfettamente riassunta da “With Or Without You” che fa dell’ elettronica una guida per l’ascoltatore mentre il “collante” universale è costituito dalle gap junctions di chitarra sporca e assordante, il tutto asservito al chorus, un vero “magnete” per gli appassionati.

Sulle coordinate di “Can’t Stop Loving You” si muovono “The Pain” e la title track, esempi del rock più energico ed emotivo; “The Pain” esordisce con vocalizzi vellutati e chitarre soffuse, per procedere con una ritmica andante- il ritornello è però mutuato dai precedenti brani e non rapisce ma brilla per l’ottimo stacco di Broman che inserisce anche suggestioni synt. Dall’altra parte, la title track, “Guilty As Sin”, sfoggia synt accennati e voci filtrate, per crescere in accelerazione e sprigionare trasporto nel fragoroso chorus, sebbene il punto di forza risieda nelle chitarre gemelle che intessono una bella progressione. Da segnalare la prima parte del ritornello, che disegna una linea melodica avvolgente. Tuttavia, come si ripete spesso negli album di recente pubblicazione, la conclusione è affidata alle tracks meno valide del platter, ovvero “Love Is Blind” e “On Fire”, una chiusura che risulta meno “dolorosa” grazie all’inserimento di “On The Run”, una fuga che coinvolge tastiere d’atmosfera e rochi innesti di chitarra oldies, una cavalcata che rievoca vecchie glorie (Deep Purple) e media il passato grazie alle sonorità del synt. Ovviamente, nell’intelaiatura di un disco vintage non potevano mancare le immancabili ballads, “Endless Love” e la più sostenuta (e sofferta) “Dying To Love”, brani dove affluiscono i canoni del “lentone” tradizionale (Bon Jovi), dall’introduzione imperniata sul delicato arpeggio alle keyboards languide e affettive, senza rinunciare al romantico plettro dell’acustica, linguaggio universale per qualsiasi canzone d’amore che si rispetti.

Da quanto detto si desume che il pregio e il difetto di “Guilty As Sin” risiede proprio nell’essenza stessa del disco: un suono tutto sommato dal sapore “ottantiano”, volontà dello stesso Broman, che ha confidato, durante un’intervista, di essersi rifiutato di scrivere hit-music, “…favorendo probabilmente una logica egoistica e retrò, ma di cuore, piuttosto che una mentalità cinica, rivolta al bussiness…”.

Questa impostazione fortemente “individualista”, refrattaria ad ogni modernismo, trova riscontro anche sul versante tecnico, se si considera che Broman, svolgendo il ruolo di polistrumentista, ha curato la produzione assieme a Martin Kronlund, secondo un trend riscontrabile nel passato in progetti analoghi (Aldo Nova).   
Se, dunque, all’artista non si può biasimare la coerenza di fondo, una cosa si può liberamente contestare: una copertina inguardabile, di certo un primato non invidiabile!

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